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Commentary

Dentro la nuova ondata di proteste in Tunisia: tra vecchi problemi e segni di cambiamento

07 marzo 2016

Per gli amanti del Gattopardo l’ondata di proteste che ha travolto la Tunisia tra dicembre e gennaio, e che non si è ancora totalmente placata nonostante la scarsa copertura mediatica, è la conferma della saggezza senza tempo di Tancredi: in Tunisia tutto è cambiato perché nulla cambiasse. E a prima vista non hanno torto. I grandi temi che avevano portato centinaia di migliaia di persone in piazza nel 2011 contro il regime personificato da Zine el Abidine Ben Ali – disoccupazione, povertà, disuguaglianze sempre più insopportabili – sono ancora li, sotto gli occhi di tutti, nonostante cinque anni di transizione e il formale passaggio, consacrato dalle ultime elezioni, ad una nuova Costituzione democratica, la più avanzata del mondo arabo. A certificarlo sarebbe proprio Al Bawsala, l’organizzazione che in questi anni si è incaricata di monitorare il lavoro dell’Assemblea Costituente e, più recentemente, l’applicazione legislativa della nuova Costituzione. L’ultimo rapporto pubblicato proprio su questo tema è infatti piuttosto sconfortante. “Il rapporto evidenzia lo scarso lavoro compiuto nel mettere in piedi misure adeguate per garantire i diritti e i principi enunciati nella costituzione, a cominciare da quelli riassunti nel capitolo 7 sulla decentralizzazione dei poteri, elemento fondamentale per le rivendicazioni riguardanti uno sviluppo economico equo e diffuso tra le varie regioni” afferma Debora Del Pistoia, cooperante italiana da quattro anni in Tunisia e attiva soprattutto in progetti nelle aree del meridione e dell’interno, le più povere del paese.

Ma se alcune cose sembrano essere rimaste esattamente le stesse, qualcos’altro sembra muoversi e, forse, gettare i semi per futuri cambiamenti. Al contrario del 2011, le proteste nate a Kassrine e poi diffusesi in molti altri centri come Jandouba e Gasfa sono rimaste per lo più al di fuori dal controllo dei normali “corpi intermedi” che le avevano dominate nel 2011, a cominciare dall’UGTT, il grande sindacato nazionale tunisino (con la parziale eccezione dei lavoratori del settore dei fosfati a Gasfa). Gran parte delle organizzazioni che erano nate con lo scopo di dare rappresentanza alle istanze sociali del paese sono infatti oggi percepite come cooptate dal potere centrale di Tunisi e sempre più distanti dalla vita e dai problemi quotidiani della “base” che dovrebbero rappresentare nelle zone più neglette del paese. Il risultato è un associazionismo sparso per adesso ancora poco in grado di coagulare e organizzare grandi numeri di persone. “I motivi principali per questo momentanea incapacità sono due”, spiega Debora, “da una parte c’è la decennale segregazione regionale imposta dalla dittatura”. In passato, soprattutto Ben Ali ha imposto scarse comunicazioni fra le varie regioni, soprattutto dell’interno, per evitare che si unissero contro il centro e la costa. “Questo è avvenuto soprattutto sostenendo pregiudizi e diffidenza tra i vari governatorati”. In secondo luogo vi è un sistema mediatico rimasto ancora “Tunisi-centrico”. Spesso i media nazionali, tutti basati a Tunisi, non hanno nemmeno un inviato o un referente stabile in città come Kassrine. “Spesso costruiscono un’informazione lontana da una realtà poco conosciuta a Tunisi, fomentando stereotipi e confilitti identitari tra le regioni”. Ma qualcosa forse in questo senso si sta muovendo.

La Rivoluzione ha liberato lo spazio mediatico permettendo la creazione di decine di nuove emittenti radiofoniche anche fuori dalla capitale. A monitorare e supportare questa attività c’è tra gli altri il progetto seguito da Debora, Mednet, attivo in Tunisia, Marocco, Palestina e Egitto. “Dopo la Rivoluzione abbiamo potuto avviare numerosi percorsi dal basso con associazioni tunisine che si davano obiettivi ambiziosi, ma che in alcuni casi stanno superando le aspettative. Ma nonostante qualcosa si muova e la voce delle periferie del paese stia acquistando vigore, gli sforzi finora non sono stati sufficienti. La frammentazione dei governatorati più poveri e la loro scarsa rappresentanza mediatica si riverbera nella scarsa copertura e nella scarsa unità nelle proteste che dopo mesi proseguono ancora oggi. Dai sit-in di Kassrine, che a molti per autorganizzazione e slogan hanno ricordato le “manifestazioni della Kasbah” del 2011, quasi tre settimane fa è infatti partita una delegazione che a piedi (quasi 300 kilometri) ha raggiunto la capitale per chiedere di incontrare il Primo Ministro che però ha delegato per l’incontro il ministro dell’impiego. L’incontro con quest’ultimo, finito a male parole, ha portato le delegazione di Kassrine a formare un sit-in permanente di fronte al Ministero dell’Impiego.

 

 

 

Immagini dai sit-in di fonte al ministero dell'impiego

A distanza di pochi giorni al sit-in si è unità una delegazione proveniente dalla cittadina di Jendouba, nel deserto occidentale. Nonostante le due delegazioni abbiano istanze simili – a Jendouba si aggiunge il problema dell’accesso alla terra, particolarmente sentito in quella regione – esse occupano parti diverse della piazza, a testimonianza della grande diffidenza che ancora regna fra i diversi governatorati. Un terzo sit-in, è partito dalla città di Gasfa, famosa per la produzione di fosfati. Qui però la divisione è avvenuta già al principio. Due cortei infatti sono partiti dalla città per dirigersi verso la frontiera algerina. Il loro obiettivo è radicale: passare dall’altra parte, abbandonare la simbolicamente la loro cittadinanza. Un terzo corteo ha invece scelto di unirsi a quelli di Jandouba e Kassrine e recarsi a Tunisi a piedi. Questa volta però le autorità sono state più rapide e sono riuscite a bloccare il corteo fuori dalla città, nel quartiere periferico di el-Mourouj. Qui da settimane restano sotto assedio della polizia, che non li lascia entrare nella capitale. Negli ultimi giorni si legge poi di un ennesimo gruppo in marcia verso Tunisi da Kairouan.

 

 

I manifestanti provenienti da Gasfa bloccati a El-Mourouj

Il silenzio mediatico intanto è calato nuovamente sulle proteste per terra e lavoro in Tunisia. È calato in Occidente certo, ma anche dentro la Tunisia stessa. Girando per la capitale è difficile trovare persone a conoscenza dei sit-in davanti al ministero dell’impiego, o di quello assediato dalla polizia a el-Mourouj. È difficile anche trovare persone consapevoli che le molte denunce di incendi e distruzioni riportate dai media durante i giorni più caldi della protesta avvenivano perlopiù attraverso informazioni provenienti da post facebook e da voci che in qualche modo si spargevano nella capitale e che tendevano a descrivere i manifestanti come pericolosi teppisti, quando non come terroristi.

Dopo cinque anni troppo pochi passi in avanti, dunque, soprattutto rispetto alla strada ancora da compiere. Ma il percorso è iniziato e, nel bene e nel male, la Tunisia ha davvero iniziato a percorrerlo. 

 

Eugenio Dacrema, @Ibn_Trovarelli

 

(Image credit: Tunisia in RED)

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