Questo è il primo articolo del blog Radar a cura di Guido Olimpio
L’attentato di Natale nel centro di Nashville, in Tennessee, introduce con forza un aspetto: il processo di «radicalizzazione» di persone che agiscono senza una spinta ideologica netta. Un’evoluzione che possiamo applicare a figure non legate a fazioni e ai mass shooters, gli stragisti che portano morte in scuole, posti di lavoro, luoghi di ritrovo. Sono significativi, a mio avviso, i punti di contatto con la traiettoria dei jihadisti e dei neonazisti.
Il primo atto è la creazione di una bolla personale. Si sentono respinti dal mondo circostante, percepiscono un’ostilità (reale o fittizia), attribuiscono agli altri i loro guai, tendono a considerarsi vittime di ingiustizie. Ed iniziano a elaborare nella loro mente teorie alternative, ma le prendono anche in prestito (solitamente cospirative). In crescita, negli ultimi anni, l’apparire di forma di misoginia violenta seguendo il messaggio e i video di Elliot Rodger, responsabile della strage di Isla Vista, California, il 23 maggio 2014. Sono tanti gli episodi sotto questo segno, specie tra Usa e Canada, con lo stesso Rodger tramutato in modello di ispirazione, esattamente come avviene per alcune figure del qaedismo molto presenti su Internet.
I futuri attentatori si isolano, anche fisicamente. Possono cambiare comportamenti verso familiari, colleghi, conoscenti. Non di rado si specchiano nel web alla ricerca di simili, condividono tesi estreme. Le loro convinzioni diventano più accentuate, pensano ad un piano operativo. Quando e come attaccare. Processo non necessariamente veloce. In alcuni casi studiano a lungo, leggono, raccolgono dati e armi. Una tendenza sempre più marcata li trasforma in cacciatori di teste, nel senso che vogliono fare il più alto numero di vittime possibile. Per stabilire un record di letalità e diventare così ancora più noti, medaglia nera cercata dal cecchino di Las Vegas, Stephen Paddock, ma anche da Adam Lanza (eccidio nella scuola di Newtown). L’eccezione è proprio nella scelta di Anthony Warner a Nashville: ha cercato accuratamente di evitare il coinvolgimento di altri.
La spinta ad attaccare può essere determinata da fattori contingenti. La delusione sentimentale, la perdita del lavoro, un contrasto in casa, un evento non atteso che scompagina ancora di più esistenze instabili. Chi sta vicino non coglie la frattura, rischia di considerarla solo una crisi temporanea. Esistono tante red flags, gli indicatori di una tempesta che finiscono per essere sottovalutati. Di nuovo, è un innesco che troviamo anche in affiliati allo Stato Islamico.
Risulta evidente come gli sparatori di massa copino tecniche terroristiche, muovano da «professionisti», il loro arsenale cresce, anche se a volte – per fortuna – non hanno le stesse capacità. E a Nashville è avvenuto ancora peggio, Warner ha scelto di farla finita con una tattica da uomo-bomba. Si è fatto saltare per aria, come fece Mark Conditt, protagonista della breve campagna di pacchi esplosivi a Austin, in Texas, nel 2018, costata la vita a due persone. E’ già il secondo episodio negli Usa di un modus operandi identico a quello di un qaedista. Non è poco. Altro particolare. Warner, prima del suicidio, ha dato via i suoi beni, ha annunciato il suo ritiro dal lavoro. Mosse che ricordano, sia pure alla lontana, gli ultimi giorni di alcuni kamikaze palestinesi nella seconda intifada. Mettono ordine nella vita terrena – spesso tumultuosa - prima che tutto sia finito. La volontà suicidaria è un aspetto ricorrente. Possono farla finita con un colpo alla tempia oppure ingaggiando la battaglia con gli agenti.
Un esperto di conflitti, Jack Hanrahan, afferma che forse sta emergendo una forma di terrorismo post-ideologico, con singoli cittadini che «non ne possono più» e si lanciano in azioni all’interno di un ambiente urbano. Andando indietro nel tempo ricordano la scorreria devastante di Hervin Heemeyer. A bordo di un bulldozer blindato distrusse diversi edifici a Gramby (Colorado, 2004), un gesto di reazione a presunti torti burocratici. Hanrahan non giustifica – è ovvio – le reazioni, invita giustamente a studiarle.
A mio giudizio, senza avere la pretesa di dare interpretazioni sociologiche, credo che sia l’affermazione di uno pseudo terrorismo, caratterizzato da aspetti molto personali. Prima di tutto ci sono i problemi del singolo, a volte colorati di politica oppure sovrapposti al «complotto».
Se hanno il tempo le descrivono in manifesti, dichiarazioni per spiegare l’assalto. E’ una realtà «caotica» dove troviamo lo sparatore senza tessera e il simpatizzante del Califfo, così simili nei comportamenti anche se la matrice li divide. Li rimette insieme – per alcuni – la visione «millenarista», apocalittica, con la fine del mondo dietro l’angolo.
E gli sforzi di interpretazione ci portano ad un tema che investe ricercatori, accademici e investigatori. Quanto avvenuto in Tennessee (ma anche in altre occasioni) può essere catalogato come terrorismo? Da parte mia ho risposto: lo è, anche se esula dalla definizione classica in quanto non vi è alcuna ragione politica nel gesto. Ma se guardiamo alle conseguenze è difficile presentarlo solo come l’atto disperato di un tecnico di allarmi, paranoico verso la rete 5G e convinto che gli alieni rettiliani controllino l’umanità. Il profilo può far sorridere, se non fosse che aveva preparato un ordigno devastante.
Sistemando l’episodio nella casella follia, aggrappandosi all’affermazione che «probabilmente non sapremo mai cosa lo abbia spinto» – frase ricorrente – si può archiviare il tutto e andare avanti. E’ vero, in talune situazioni gli investigatori non riescono a trovare risposte in quanto chiuse nella mente di uomo. Complicato stabilire parametri. Tuttavia servirà guardare a questi eventi nel loro insieme.