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Commentary
Dietro il mito della rivoluzione green
Simone Urbani Grecchi
12 febbraio 2021

In un periodo storico in cui la proliferazione dei mezzi di comunicazione e la spettacolare crescita della loro capillarità hanno moltiplicato le informazioni che riceviamo, i messaggi ad effetto hanno assunto una rilevanza fondamentale in molti settori della comunicazione. Può non piacere a molti, ma queste sono oggi le regole del gioco, soprattutto per chi fa politica. Nell’odierna ‘microwave society’, i messaggi devono infatti essere brevi e di impatto e, nel caso non lo siano, si rischia di non essere ascoltati. Usare troppe parole per esprimere un concetto non è mai stato vincente e lo è ancora meno nell’era di internet. Al punto che oggigiorno, parafrasando un aforisma che circola negli ambienti politici britannici, si potrebbe dire che “if you are explaining, you are losing”.

 

Quale transizione per il settore energetico?

Ben venga dunque che il settore energetico, le cui scelte strategiche hanno un alto impatto geopolitico, sia riuscito a raccogliere in una frase ad effetto (“transizione energetica”) uno dei più importanti temi del momento: la necessità di abbandonare progressivamente le fonti combustibili e di sostituirle con quote sempre maggiori di energia rinnovabile. L’espressione “transizione energetica” attira l’attenzione su molte delle questioni che le nostre società sono chiamate ad affrontare: dal cambiamento climatico all’inquinamento atmosferico, dalla ricerca di nuove fonti energetiche alla loro gestione, dalla rivisitazione degli attuali modelli di consumo alla transizione verso nuovi stili di vita e lavoro. Ma proprio perché il tema è complesso, risulta importante inquadrarlo bene in sede di policymaking e assicurarsi che gli obiettivi a esso collegati vengano raggiunti.

Innanzitutto, risulta fondamentale distinguere tra cambiamento climatico e inquinamento atmosferico. Fino ad oggi, a livello di decisioni politiche, le linee di demarcazione tra i due argomenti sono state troppo labili, con la conseguenza che si sono confusi ambiti di applicazione e obiettivi e sono spesso state adottate misure di politica energetica di scarsa efficacia, se non addirittura inutili. Ad esempio, i soggetti firmatari dell’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici hanno indicato i loro rispettivi obiettivi di riduzione delle emissioni antropogeniche, senza però rilevare che queste ultime racchiudono due categorie di emissioni molto diverse tra di loro, sia in termini fisici che di impatto sulle nostre comunità: i cosiddetti “gas serra" (ad esempio l’anidride carbonica) e le sostanze inquinanti a livello locale (come ad esempio monossido di carbonio, biossido di azoto, ozono troposferico o particolato). Tale distinzione andrebbe tenuta in debita considerazione in sede di policymaking perché le due tipologie di emissioni richiedono l’adozione di misure legislative diverse.

Le mosse per ridurre i gas serra e l’inquinamento

La riduzione dei gas responsabili del climate change comporta infatti scelte sostanzialmente mirate a (a) reingegnerizzare i processi produttivi di interi comparti industriali; (b) favorire la ricerca e lo sviluppo tecnologico per l’introduzione di fonti energetiche alternative; (c) coinvolgere catene produttive che spesso sono distribuite su territori regionali (se non addirittura globali). Tutti obiettivi raggiungibili, ma prevalentemente in un’ottica di medio/lungo periodo e su scala regionale, se non addirittura globale.

Per quanto riguarda l’inquinamento atmosferico, invece, in particolare per quello delle aree urbane (dove oggi vive il 56,2% della popolazione mondiale), le questioni ambientali dovrebbero essere affrontate localmente e utilizzando tecnologie già esistenti. Misure comparativamente più semplici, quindi, e di più immediata applicabilità. Certo, il miglioramento della qualità dell’aria nelle città dovrebbe passare anche da accordi con le case automobilistiche (molte delle quali oramai transfrontaliere) ma ciò non toglie che i grandi centri urbani possano e debbano attivarsi autonomamente e dedicare risorse/definire accordi per il progressivo abbattimento delle principali fonti di inquinamento a livello locale. Si tratta di un tema delicato, che coinvolge anche la disponibilità di risorse finanziarie, oltre che i tempi e le modalità di trasferimento delle entrate proprie degli enti territoriali dall’amministrazione centrale.

Tuttavia, numerosi studi hanno evidenziato una correlazione tra l’esposizione a sostanze inquinanti come CO, NO2, O3 e particolato e l’incidenza di malattie respiratorie, ricoveri in ospedale e tassi di mortalità: aspetti che dovrebbero spingere sia il settore pubblico (autorità nazionali e locali) che quello privato (industria automobilistica, riscaldamento domestico, aziende, singoli individui) a rivedere modelli produttivi e stili di vita. L’inquinamento, dopotutto, è un fenomeno molto democratico e colpisce tutti, indistintamente.   

 

Breve periodo vs medio periodo

Bisogna poi distinguere tra obiettivi di breve periodo (che dovrebbero includere, ad esempio, la riduzione dell’inquinamento locale) da quelli di lungo periodo, da applicare a problemi regionali/globali e, per questo, più complessi da risolvere (come ad esempio le emissioni di gas serra).

Alcuni osservatori ammoniscono contro i mali dell’approccio di “breve periodo”, sottolineando invece le virtù della visione di “lungo periodo”. In molti campi ciò è condivisibile, ma definire esclusivamente obiettivi di lungo periodo per ridurre l’inquinamento urbano è particolarmente fuorviante. Spesso infatti è successo che i target da raggiungere in questo campo siano stati (a) periodicamente posticipati (se non addirittura ritoccati); (b) stabiliti per date lontane e comunque successive alla scadenza del mandato elettorale dell’amministrazione che le proponeva. Tutto comprensibile, dal punto di vista tattico, per un rappresentante politico. Ma deleterio dal punto di vista ambientale, perché stabilire obiettivi successivi alla scadenza del proprio servizio non risolve i problemi più pressanti (come l’inquinamento) e fa ovviamente perdere gran parte della responsabilità di portarli a termine.

Nel caso specifico degli enti territoriali, invece, alle prese con problemi locali che non devono prevedere la firma di laboriosi accordi internazionali, gli obiettivi di abbattimento dell’inquinamento atmosferico dovrebbero essere considerati raggiungibili nel breve periodo. Senza dubbio, volontà politica e leadership non sono sempre presenti e, in loro assenza, risulta difficile proporre variazioni allo stile di vita della cittadinanza. Ma è anche vero che gli amministratori locali (in particolare i sindaci) hanno il vantaggio di conoscere meglio il territorio e i desiderata dei loro concittadini, aspetto che rende il lavoro in campo ambientale sicuramente più facile rispetto a quello degli amministratori centrali o sovranazionali.

Come succede spesso a livello nazionale, invece, molte amministrazioni cittadine hanno definito obiettivi a scadenza più che decennale, senza riuscire a raggiungerli (o raggiungendoli soltanto in minima parte). È stato, ad esempio, il caso dei vari programmi pluridecennali che fiorirono all’indomani della presentazione dell’Agenda 21, approvata nell’ambito degli accordi di Rio de Janeiro del 1992 che provarono (attraverso un accordo internazionale) a definire un quadro di riferimento da declinare anche livello di comunità urbane. La distanza tra i buoni auspici del summit di Rio e i risultati effettivi delle misure proposte è documentata da varie fonti ed è la naturale conseguenza di aver tentato di applicare criteri validi a livello internazionale e per obiettivi di lungo periodo (un accordo internazionale) a un tema (l’inquinamento dell’aria urbana) di stampo prettamente locale e da affrontare, viste le ricadute sulla salute, nel breve periodo.

Non dovrebbe quindi sorprendere che, così come in Cina e negli Stati Uniti, anche in molte aree d’Europa la popolazione è ancora oggi esposta a livelli di inquinamento molto elevati, che troppo frequentemente superano i limiti stabiliti. Limiti a cui andrebbe invece rivolta la massima attenzione, alla luce (a) dei 7 milioni di morti all’anno causati dall’inquinamento urbano, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità; (b) degli scarsi successi nella trasformazione del parco auto privato, come dimostrato dalla percentuale di auto elettriche a oggi in circolazione a livello globale (2,8%); (c) delle quantità di emissioni nocive ancora oggi attribuibili al riscaldamento domestico.

 

Cosa rallenta la transizione

L’aver spesso confuso il tema dei gas serra con quelli dell’inquinamento atmosferico e aver applicato misure utili a livello internazionale per la soluzione di problemi locali ha finito quindi per rallentare il percorso di transizione energetica. Alla luce del fatto che l’energy mix non è cambiato in maniera significativa (anzi, l’estrazione di combustibili fossili è aumentata nel corso del decennio 2010-2019 ed è prevedibile che questo trend continui anche nei prossimi anni) si può quindi sostenere che tale processo sia ancora nella fase iniziale. E questo non solo per la confusione nella definizione di obiettivi e strumenti di policy, ma anche perché: (a) la transizione energetica ha trovato un significativo ostacolo nella riduzione del prezzo dei combustibili fossili, rendendo la loro sostituzione meno attraente; (b) non sono cambiati né i nostri modelli di consumo né le nostre abitudini individuali, cioè alcuni tra i principali temi da affrontare a livello di policymaking per provare seriamente a migliorare la qualità dell’aria dei nostri centri urbani. 

 

Le trasformazioni a livello locale

È allora giunto il momento per un cambio di paradigma a livello locale? Per molti versi sì.

  • Innanzitutto, perché la crisi economica causata dalle misure di distanziamento sociale verrà nei prossimi mesi/anni mitigata da finanziamenti e sussidi pubblici da utilizzare (occasione più unica che rara) anche nel settore ambientale.
  • Inoltre, perché affrontare le tematiche dell’inquinamento delle nostre città contribuirebbe in maniera rapida ed efficace a realizzare una compiuta transizione energetica, ad esempio attraverso (a) la trasformazione del parco auto circolante verso motori ibridi o elettrici; (b) l’installazione di controlli satellitari della velocità, soprattutto nei centri urbani; (c) la riduzione della potenza installata dei veicoli; (d) l’estensione del servizio di trasporto locale; (e) l’individuazione di incentivi alla mobilità pedonale, da sempre indicata come un efficace rimedio all’inquinamento e oggi al centro delle raccomandazioni anche di autorevoli organizzazioni come l’International Energy Agency (IEA).
  • Infine, perché esiste da decenni una forma di distanziamento sociale molto efficace, di semplice attuazione e nonostante ciò, colpevolmente, poco utilizzata (cioè il lavoro a distanza) che permetterebbe ai centri urbani di ottenere tangibili benefici in tempi sostanzialmente immediati attraverso (a) la riduzione degli spostamenti per lavoro; (b) l’aumento della velocità media del traffico; (c) il decongestionamento dei mezzi pubblici (aspetto che tra l’altro li renderebbe più accessibili agli anziani o alle persone con limitata mobilità); (d) la riduzione dell’inquinamento atmosferico, con ovvii benefici in termini di salute pubblica e di riduzione delle spese sanitarie; (e) una possibile riduzione della densità demografica, fornendo contestualmente un contributo al ripopolamento e alla riqualificazione sia delle aree urbane periferiche, sia dei piccoli/medi centri cittadini.

 

Le priorità per il prossimo futuro

Stiamo dunque vivendo un’importante congiuntura storica ed è arrivato il momento di utilizzare le risorse (non solo finanziarie) a nostra disposizione, cosa che finora in Italia non abbiamo saputo fare adeguatamente - soprattutto per quanto riguarda i fondi UE a gestione indiretta - mostrando scarsa progettualità, sia a livello privato che di settore pubblico. Ma, in prospettiva futura, è su quest’ultimo (e a livello territoriale) che grava la responsabilità di ridurre l’inquinamento atmosferico, sia per salvaguardare gli standard sanitari sia, al tempo stesso, per sostenere il processo di transizione energetica.

Il periodo che stiamo vivendo, caratterizzato da una crisi sanitaria internazionale, rappresenta quindi un’occasione unica per riportare la gestione della salute pubblica al centro dell’attenzione dei legislatori, così come sta accadendo ad esempio attraverso il dibattito sull’obbligatorietà di una vaccinazione anti SARS-CoV-2. Ed è un bene. Tuttavia, tale attenzione non avrebbe mai dovuto affievolirsi, perché così come uno Stato è tenuto a intervenire in casi di emergenza sanitaria allo stesso modo, su base continuativa, dovrebbe (a) garantire il rispetto delle norme anti inquinamento; (b) mettere al bando abitudini non proprio salutari che tuttora, nonostante causino da sempre un numero di decessi notevolmente superiori a quelli del SARS-CoV-2, gravano ancora pesantemente sulle nostre comunità e sulle tasche dei contribuenti.

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ISPI e Sciences Po

Tags

economia ambiente
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AUTORI

Simone Urbani Grecchi
Head of International Strategic Analysis, Intesa Sanpaolo

Image credits (CC BY-SA 3.0)

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