Il Fondo monetario internazionale nel quale si è appena accomodata Christine Lagarde è un’istituzione profondamente diversa anche solo rispetto a pochi mesi fa. Ci sono, certo, circostanze passeggere che contribuiscono a rendere il ruolo dell’Fmi e quello della stessa Lagarde in qualche modo singolari. C’è l’abnorme catena di eventi che ha portato all’elezione dell’ex ministro dell’Economia di Sarkozy a Washington. C’è il fatto che per la prima volta nella sua storia recente il Fondo ha maturato un’esposizione verso i Paesi avanzati d’Europa occidentale tale da renderlo allo stesso tempo l’arbitro e l’ostaggio della situazione. E c’è il potenziale conflitto d’interessi nel quale la signora Lagarde si trova implicitamente invischiata: le banche francesi hanno un’esposizione fra le più estese verso il Portogallo, l’Irlanda e soprattutto la Grecia e viene da Oltralpe il piano che in teoria dovrebbe coinvolgerle nel salvataggio di Atene. Quel piano sul trattamento dei crediti delle banche verso la Grecia è uscito da Parigi quando Lagarde era ancora ministro del’economia. Quando quello stesso piano è atterrato sui tavoli dell’Fmi per un esame e un parere, Lagarde era già lì con il suo nuovo cappello. Si può essere perdonati per aver pensato, anche solo un istante, che il rimbalzo di Borsa di Bnp Paribas, Société Générale e Crédit Agricole in quei giorni non fosse del tutto irrazionale.
Ma, appunto, questi sono eventi per lo più legati alle circostanze immediate. C’è poi qualcosa di più strutturale che rende l’ascesa di Lagarde al Fondo e l’intero assetto dell’istituzione in qualche modo nuovo e precario. Per la prima volta, non è stato affatto scontato che l’Europa avesse la capacità di esprimere il proprio candidato in quel ruolo. Dai Paesi emergenti, ma anche dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna si sono sentite molte voci chiedere di voltare pagina, per aprire la competizione a un maggior numero di aspiranti: messicani, brasiliani, cinesi è perché no, anche essenzialmente americani come il governatore della Banca d’Israele Stanley Fischer.
Il fatto che ciò non sia successo, non significa che niente è cambiato. Ciò che appare nuovo, è che per la prima volta gli europei hanno dovuto chiedere il permesso e raccogliere il consenso attorno al loro candidato: non hanno potuto semplicemente imporlo agli altri, come avevano fatto per esempio con il tedesco Horst Koehler dieci anni fa. Lagarde ha dovuto estendere promesse e concessioni a molte potenze emergenti, prima di poter contare sul loro sostegno: alcune sono emerse, come quando la francese ha parlato di un’accelerazione nell’ennesima revisione dei meccanismi di voto e di divisione delle quote; altre concessioni magari non sono state formulate in pubblico, ma i rapporti d’affari e di fornitura fra la Cina e le grandi imprese francesi sono un ampio terreno di negoziato.
Soprattutto, l’Europa ha perso il suo “droit de regard” al Fondo. È del tutto probabile che la candidatura della ministra dell’Economia di Sarkozy sia andata avanti solo dopo che Parigi ha sondato in proposito gli Stati Uniti. In questo senso gli europei non hanno scelto semplicemente il candidato che volevano: hanno spinto in avanti il candidato europeo che andava bene all’amministrazione americana. Mentre tutti parlano dell’ascesa dei Paesi emergenti, il “droit de regard” sul Fondo si è trasferito da una sponda all’altra dell’Atlantico del Nord.
Il prezzo simbolico che ha pagato l’Europa in questo passaggio è senz’altro alto. Non è stato scritto né esplicitato in pubblico, ma tutti gli osservatori attenti hanno assistito a quest’ascesa in qualche modo umiliante di Lagarde. La ministra di Sarkozy, nella sua campagna per la nomina, è passata di convegno in convegno a Washington ironizzando - come fosse un’americana - sui difetti presunti dei francesi per compiacere la platea: solo due anni fa sarebbe stato inconcepibile. È questo livello di sforzo che dà la misura di quanto l’Europa sia debole e di quanto sia importante per gli europei ora quel posto a Washington: il conflitto d’interessi nella risoluzione della crisi del debito alla periferia dell’euro è qualcosa a cui teniamo, per ora, terribilmente.