Nell’ultimo decennio, e più precisamente dallo scoppio delle cosiddette “primavere arabe”, la collaborazione tra Unione europea e Russia nella regione del Mediterraneo è stata altalenante. Le esperienze di Egitto e Tunisia, ad esempio, sono state accolte con favore sia dagli europei che dai russi, che in esse vi hanno letto un desiderio popolare e legittimo di cambiamento democratico, e hanno espresso fin da subito la loro disponibilità a lavorare con i nuovi governi.[1] Diversamente, quanto accaduto in Libia ha portato Europa (insieme agli Stati Uniti) e Russia a confrontarsi, con la prima a favore dell’intervento militare straniero che avrebbe poi portato alla caduta di Gheddafi e la seconda più propensa al mantenimento dello status quo. O ancora, mentre nel luglio 2015, malgrado l’avvilupparsi della crisi ucraina, la partecipazione della Russia ai colloqui diplomatici fra l’Iran e l’UE+3 (Francia, Germania e Regno Unito) sul dossier nucleare aveva fatto ben sperare in una rinnovata cooperazione su altri dossier del Medio Oriente e Nord Africa, tali speranze si sono sgretolate non appena Mosca, pochi mesi più tardi, aveva dato ufficialmente inizio alla campagna militare a fianco del presidente siriano Bashar al-Assad. Il sostegno incondizionato della Russia a un regime brutale, accompagnato dalla campagna di disinformazione condotta sia all’interno sia all’esterno del paese, hanno messo a dura prova la fiducia europea nei confronti dell’operato russo nei conflitti che tormentano la regione (fiducia sempre più flebile anche alla luce dei recenti sviluppi di politica interna in corso a Mosca con il cosiddetto “caso Navalny”). Allo stesso tempo, tuttavia, proprio in questi conflitti si aprono timidi spiragli di dialogo – finanche di cooperazione – fra l’UE e la Russia che, per quanto difficile da immaginare, potrebbero essere necessari a salvaguardare gli interessi europei. L’approfondimento esplora queste possibilità, in merito ai casi specifici del conflitto siriano e di quello libico.
Il caso siriano
Ciò che ha allontanato Bruxelles e Mosca sulla Siria, facendo sì che europei e russi si muovessero su binari paralleli sin dall’inizio, è stata una sostanziale divergenza di opinioni sulle origini della stessa crisi siriana. È dunque importante comprendere tale divergenza se si vuole provare a definire un quadro per un possibile dialogo euro-russo.
Per l’UE la crisi siriana è originata da una ribellione popolare legittima nei confronti di un regime autoritario, ritenuto incapace di garantire il contratto sociale. Almeno fino a quando la crisi non è degenerata, anche per mano dei numerosi gruppi jihadisti che hanno progressivamente sfruttato l’instabilità politica per accrescere la loro posizione e influenza nel paese. L’Europa (e più in generale l’Occidente) aveva creduto che la caduta di Assad avrebbe segnato una svolta, un cambio di regime a cui sarebbe succeduto un governo più democratico, inclusivo e rappresentativo di tutte le componenti della società siriana. L’Unione europea denunciava (e tuttora denuncia) la natura stessa del regime di Damasco, così come il sostegno internazionale su cui questo poteva (e può tuttora) contare. Al contrario, i russi fin da subito avevano visto la rivolta del 2011 come una minaccia esistenziale a un regime legittimo, quello di Assad, percepito da Mosca come l’unico garante credibile di stabilità e l’unica forza in grado di porre un argine al fondamentalismo religioso (una fiducia, va detto, che ultimamente sembra affievolirsi di fronte ai continui rifiuti di Assad di scendere a compromessi negoziali). Mosca, che vanta una presenza storica sul territorio e legami ben consolidati soprattutto con la famiglia (allargata) del presidente, era in qualche modo persuasa che i paesi dell’UE avessero frainteso ciò accadeva in Siria e che la caduta di Assad avrebbe portato al potere un regime radicale guidato dai sunniti (nella peggiore delle ipotesi proprio dallo Stato Islamico), andando certamente a minare gli interessi geostrategici russi. Mosca denunciava tutte le forze siriane che rappresentavano una minaccia per il regime e, più in generale, l’“agenda democratica” di cui l’Occidente da tempo si faceva promotore, come da tradizione in molti paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente, e che, agli occhi di Mosca, già aveva gettato paesi come Afghanistan, Iraq e Libia in una spirale di caos irreversibile.
Di conseguenza, dal 2011 europei e russi hanno adottato una politica radicalmente diversa nei confronti della Siria. Con poche eccezioni (Francia, Regno Unito), l’UE e i suoi stati membri si sono per lo più disimpegnati, prendendo le distanze dal conflitto civile pur continuando a fornire aiuti umanitari[2] e a sostenere la coalizione internazionale contro lo Stato Islamico. Dall’inizio del conflitto, gli europei hanno fornito più di 17 miliardi di euro in aiuti ai siriani che vivono sia all’interno sia all’esterno del paese ed è stato istituito il Fondo Madad,[3] un fondo fiduciario regionale dell’UE che ha raggiunto ormai quasi 1,4 miliardi di euro. Al contrario, la Russia ha trasformato la sua politica per la Siria in una politica interventista e, dal settembre 2015, guida la campagna militare che ha restituito il paese nelle mani di Assad. A oggi, UE e Russia godono di un’influenza e di una capacità d’azione molto diverse nel paese. Mosca è divenuta il vero e proprio mediatore del conflitto, apparentemente oscurando ogni possibile ruolo politico dell’Europa. Mentre Mosca vanta sia il suo potere di leva su Assad (a dire il vero piuttosto esiguo) sia la capacità di dialogare con tutti gli stakeholder della crisi, il ruolo europeo in questo senso è limitato: l’UE sta ancora sanzionando la Siria (con scarsi risultati, poiché il regime sembra riuscire a raggirare il regime sanzionatorio[4] – e chi veramente ne paga gli effetti è la popolazione civile[5]) e solo pochi governi europei hanno mostrato vaghi segnali di apertura a un possibile dialogo con Damasco.
Oggi, tuttavia, la crisi siriana si trova in una fase di stallo, che obbliga i vari attori e le varie potenze coinvolte, soprattutto l’UE, a una riflessione. Da un lato, se non cerca una mediazione con Mosca, l’UE rischia di rimanere sempre più isolata dalla crisi siriana e dalla futura fase di ricostruzione postbellica, e pertanto sempre meno capace di apportare qualsiasi contributo politico oltre a quello umanitario. Per non parlare delle conseguenze che un ulteriore isolamento europeo potrebbe avere nel lasciare maggiore spazio di manovra ad altre potenze, in primis la Cina, che intravede nella Siria una tappa della sua proiezione mediorientale e mediterranea rilevante per garantire i propri interessi securitari (lotta al terrorismo) ed economici (Via della Seta).[6] Dall’altro, se continuano ad auspicare il dialogo con l’UE senza però creare le condizioni necessarie perché questo dialogo avvenga (a cominciare da una maggiore trasparenza), i russi rischiano di cadere vittime della “pax russa” che loro stessi sono andati creando: vale a dire una situazione precaria in cui la Siria è attraversata dalle ingerenze esterne di paesi come Turchia, Iran, ma anche monarchie del Golfo, Israele e Cina, e governata da un dittatore debole sul piano interno e che non gode di alcun sostegno internazionale/occidentale, men che meno in Europa.
Sebbene questa situazione rappresenti certamente un’impasse, allo stesso tempo offre un’occasione per esplorare percorsi, per quanto non lineari, di cooperazione. Al di là delle profonde divergenze, infatti, europei e russi condividono obiettivi molto simili in Siria, tra cui:
- Stabilità e un accordo politico
È vero che, come descritto sopra, il termine “stabilità” sembra avere un significato diverso per l’UE e per la Russia: per la prima, la stabilità dovrebbe essere raggiunta attraverso una transizione politica che implica la sostituzione del regime di Assad; per la seconda, stabilità è garantire lo status quo. Eppure, l’obiettivo finale sembra essere lo stesso: sia gli europei sia i russi desiderano che il conflitto siriano finisca e che si lavori al raggiungimento di un accordo politico (che comprenda anche la stesura di una nuova Costituzione, per cui sono in corso i negoziati a guida Onu proprio in questi giorni a Ginevra[7]). A tale proposito, entrambi potrebbero trovare più conveniente fare un passo indietro rispetto alle rispettive posizioni originali. Da un lato, se la rimozione di Assad è stata finora una condizione non negoziabile per l’UE, è ormai chiaro che una transizione politica senza Assad non avverrà, almeno non nel breve termine (e questo non solo perché la Russia non è disposta rinunciare ad Assad, ma anche perché al momento in Siria non sembra esistere un’alternativa reale). Dall’altro, se la permanenza di Assad è stata finora una condizione non negoziabile per la Russia, dovrebbe essere ben chiaro a Mosca che qualcosa vada necessariamente – e urgentemente – fatto per esercitare pressione sul presidente affinché faccia alcune concessioni. La chiave potrebbe essere quella di lavorare a una “transizione politica di compromesso”, in cui, ad esempio, Assad non rinunci al suo ruolo, ma faccia concessioni politiche ed economiche tanto all’opposizione siriana quanto agli attori internazionali.
- Il ritorno dei rifugiati
Altro interesse comune di Bruxelles e Mosca riguarda il ritorno degli sfollati e dei rifugiati temporaneamente residenti sia in Europa sia nella regione (a livello regionale, i numeri maggiori di rifugiati si trovano in Turchia, Libano e Giordania, seguiti da Iraq ed Egitto[8]). L’interesse dell’UE e dei suoi Stati membri è quello di garantire condizioni sicure al rientro di queste persone perché possano ristabilirsi nel loro paese. Anche la Russia ha posto il rientro dei profughi come una condizione prioritaria ed essenziale per la ripresa del paese.[9] Inoltre, europei e russi condividono simili timori in merito ai campi profughi in tutta la regione del Medio Oriente e Nord Africa, considerandoli luoghi particolarmente vulnerabili e pertanto soggetti al proliferare di processi di radicalizzazione. A questo proposito, Bruxelles e molti governi europei sono in una posizione di vantaggio, avendo subito le conseguenze della diaspora siriana molto più di quanto non abbia fatto la Russia, e sono pertanto nella condizione di poter chiedere un progresso più tangibile a Mosca, vale a dire l’attuazione dei regolamenti dell’Unhcr per i rimpatri dei rifugiati.[10]
- Ricostruzione
Altro obiettivo comune è quello della ricostruzione delle infrastrutture e delle aree distrutte dalla guerra. A questo proposito, le posizioni di UE e Russia sono probabilmente più vicine che su altri dossier, poiché entrambi sembrano avere un interesse decisamente limitato a impegnarsi nel business della ricostruzione. E questo, però, per motivi opposti: gli europei potrebbero avere (o trovare) i fondi necessari per finanziare investimenti, ma sono riluttanti a ricostruire la Siria di Assad; i russi vorrebbero ricostruire la Siria di Assad, ma non hanno i mezzi economici per farlo (soprattutto allorché il paese rimane sotto regime sanzionatorio Usa e UE).[11] Questo pone l’UE in una situazione di vantaggio. L’UE e la maggior parte dei suoi Stati membri, infatti, subordinano il proprio coinvolgimento nella ricostruzione a maggiori concessioni da parte di Damasco (come rispetto delle sanzioni, progressi politici, ritorno e protezione dei rifugiati), questi dovrebbero necessariamente chiedere alla Russia un maggiore impegno a garantire tali concessioni.
Riassumendo, quella siriana rimane una delle crisi più gravi e durature tanto per l’UE, svolgendosi nel suo vicinato meridionale, quanto per la Russia, che vi ha investito enormemente tanto dal punto di vista diplomatico quanto militare. Trovare nuovi spiragli di dialogo, se non di cooperazione, sui punti suddetti è nell’interesse di entrambi. Certo, l’UE farebbe bene ad adottare un approccio molto realista, “no illusion”: una cooperazione con la Russia avrebbe certamente molti limiti, sia in termini della natura stessa del partenariato (che potrebbe essere sbilanciato in quanto europei e russi svolgono un ruolo molto diverso nel paese) sia in termini degli effetti concreti che questo dialogo potrebbe produrre. Occorre ridurre le aspettative,[12] tenendo presente che il dialogo con la Russia sulla crisi siriana non dovrebbe certamente mirare a una “risoluzione” comune della crisi, ma piuttosto a una “gestione” della stessa. In altre parole, ridurre le aspettative servirebbe a definire obiettivi forse minori e di più breve termine (quelli sopra descritti), ma più facili da raggiungere e, auspicabilmente, potrebbe portare a risultati più tangibili per il popolo siriano.
Il caso libico
Per molti aspetti, nell’esplorare le possibilità di collaborazione fra UE e Russia nelle crisi del Mediterraneo, il caso libico somiglia a quello siriano. Anche qui, la lettura della rivolta libica del 2011 è stata molto diversa in Europa e in Russia. Per gli europei – e per gli alleati americani – la rivolta contro il regime di Muammar Gheddafi originava da una ricerca popolare di cambiamento democratico, che doveva essere sostenuta con tutti i mezzi; per i russi, la ribellione non era altro che un tentativo di destabilizzazione, che sarebbe stata sfruttata dall’Occidente per esportare il proprio modello di democrazia, senza questionarne l’effettiva compatibilità con il contesto libico. Anche in Libia diverse interpretazioni della rivolta si sono dunque tradotte in decisioni politiche opposte: mentre europei e americani hanno posto la rimozione del raìs come una condizione sine qua non per il prosieguo di una rivoluzione democratica, la Russia ha continuato a opporsi a qualsiasi “interferenza esterna”[13] finalizzata a un cambio di regime, arrivando a considerare Gheddafi come uno stretto alleato.
Anche in Libia, il dialogo dell’UE con la Russia è stato quindi ostacolato da visioni divergenti. In questo caso, europei e russi si sono scontrati in modo anche più evidente di quanto non abbiano fatto in Siria, e questo anche in ragione del fatto che UE e paesi europei (Francia, Italia e Regno Unito in primis), ma anche gli Stati Uniti, ricoprono in Libia un ruolo politico di maggiore rilievo di quanto non facciano in Siria, anche per i maggiori interessi in gioco. Nel 2011 il picco del confronto è stato registrato nel mese di marzo, quando la Lega Araba ha chiesto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (Unsc) d’imporre una no-fly zone sulla Libia per proteggere la popolazione civile dall’oppressione e dalle ritorsioni del regime di Gheddafi contro i ribelli. La risoluzione è stata accolta con scetticismo da Mosca, che si è comportata in modo insolito. La posizione iniziale del Cremlino era quella di evitare qualsiasi intervento straniero volto a rovesciare il regime, che avrebbe gettato il paese nel caos, potenzialmente portando all’ascesa degli islamisti. Tuttavia, al momento del voto in sede del Consiglio di sicurezza, la Russia si era astenuta, consentendo così l’adozione della risoluzione 1973.[14] La decisione russa suggeriva che, nonostante la sua disapprovazione per le interferenze occidentali, in quel momento la priorità di Mosca era quella di preservare buoni rapporti con gli Stati Uniti e gli alleati europei (e la Lega araba). Ma Mosca ci ha ripensato abbastanza rapidamente. A pochi giorni dall’inizio dell’intervento guidato da Stati Uniti e Nato, essa ha criticato aspramente ciò che stava accadendo nel paese. La decisione della Russia di astenersi ha lasciato un profondo senso di rammarico tra la leadership russa,[15] che ha sicuramente influenzato gran parte delle decisioni di Mosca su altri dossier del Mediterraneo (tra cui, indubbiamente, la decisione di difendere il regime di Assad in Siria).
Nel 2014-15, l’ascesa del generale Khalifa Haftar, il cosiddetto “uomo forte” alla guida della Cirenaica, ha dato alla Russia una seconda possibilità. Opponendosi all’Accordo di Skhirat sponsorizzato dall’Occidente (2015), proponendosi come il campione della lotta contro l’islamismo nel paese e garante dell’ordine e della sicurezza nelle aree da lui riconquistate e governate (Cirenaica in particolare), Haftar è stato gradualmente percepito da Mosca come l’uomo giusto per rappacificare e guidare la Libia. Mosca ha scelto di allineare le proprie posizioni a quelle di Egitto ed Emirati Arabi Uniti (Uae), contro Qatar e Turchia. Il sostegno russo (così come quello egiziano ed emiratino) al generale, però, più che pacificare ha in realtà provocato una rapida escalation tra attori locali e internazionali. Gli Stati Uniti e i paesi europei, infatti, sono sempre rimasti formalmente legati al Governo di Accordo Nazionale (Gna) di Tripoli (a eccezione della Francia che ha avuto una collaborazione alquanto ambigua con Haftar – si vedano gli episodi del luglio 2016[16] ma anche l’ospitalità che Parigi ha concesso al generale nel 2017 e 2018, riservandogli di fatto la stessa accoglienza del presidente del Gna Fayez al-Serraj).
Finora, un dialogo fra UE e Russia sui più recenti sviluppi in Libia è stato inesistente. A oggi, il conflitto è radicalmente polarizzato e ciò rende difficile immaginare anche solo la prospettiva di una cooperazione con la Russia su questo dossier. Peraltro, le relazioni fra UE e Russia sono attualmente molto tese a causa di vari dossier aperti che preoccupano Bruxelles, dalla Bielorussia al Nagorno Karabakh, ma soprattutto per via della pericolosa deriva che sta prendendo la risposta del Cremlino alle proteste a sostegno del noto oppositore Alexej Navalnyj. Tuttavia, se l’attuale situazione di stallo dovesse protrarsi ancora a lungo, un dialogo con Mosca potrebbe diventare inevitabile: l’UE e i suoi Stati membri hanno interessi vitali e di lungo termine nel paese, mentre la Russia si è inserita nel conflitto più recentemente e anche i suoi interessi sono cresciuti. Al fine di creare almeno le condizioni per il dialogo, finalizzato a progettare un possibile quadro di collaborazione, entrambe le parti dovrebbero valutare alcuni elementi importanti:
- Gli europei devono essere consapevoli dei reali interessi della Russia in Libia ed evitare di commettere un errore di valutazione: i russi in Libia non seguiranno la via siriana. La politica della Russia in Libia è molto diversa da quella per la Siria. In primo luogo, la politica libica della Russia non è di per sé omogenea. Esiste un alto grado di discordanza tra il ministero degli Affari Esteri, rappresentato dal diplomatico Sergey Lavrov, e il ministero della Difesa, rappresentato da Sergey Shoygu, che hanno interessi profondamente diversi. Mentre il ministero della Difesa persegue interessi militari e commerciali e ha una gamma molto ristretta di interlocutori (principalmente Haftar), il ministero degli Affari Esteri ha complessi interessi geopolitici da preservare (il rapporto con la Turchia, sempre difficile da bilanciare poiché, in Libia come in Siria, Mosca e Ankara sono di fatto ”rivali concordi”; il rapporto con Egitto e potenze del Golfo, partner strategici in numerosi progetti infrastrutturali ed energetici; il rapporto con l’UE che – almeno a parole – Mosca dice di voler preservare; il mantenimento di buone relazioni con gli Usa; la proiezione di Mosca come attore positivo e costruttivo nel Mediterraneo; e, più in generale, quella politica del “parlare con tutti” di cui il Cremlino fa vero e proprio vanto), che comportano un dialogo con tutti gli attori interni ed esterni del conflitto, e non certo solo con Tobruk. In secondo luogo, almeno sino a ora, Mosca non ha mostrato alcuna intenzione reale di proporsi come “power broker” del conflitto libico e di applicare una sorta di “modello Astana” alla Libia.[17] In termini diplomatici, il Cremlino è ben consapevole dei maggiori rischi che correrebbe scontrandosi con l’UE, i Paesi membri e gli Stati Uniti. Né la Russia ha mostrato una reale intenzione di stabilire una presenza militare/territoriale duratura nel paese (cosa che ha fatto invece altrove, da ultimo in Sudan): l’onere economico sarebbe troppo pesante. Piuttosto, ciò che la Russia sembra determinata a fare è mantenere una presenza duratura nel paese dal punto di vista delle relazioni politico-diplomatiche, come suggerito dalla dichiarazione di Sergey Lavrov (3 luglio 2020) sulla volontà di Mosca di riaprire la sua ambasciata libica con una base nella confinante Tunisia che, nelle parole del ministro, “rappresenterà la Russia in tutta la Libia”. La presenza militare della Russia è un’altra cosa, e ha più a che fare con gli interessi commerciali di Mosca, in parte rappresentata dal Gruppo Wagner (il progetto, spesso discuso e temuto da parte europea e “occidentale” di stabilire una base militare in Libia non sembra al momento essere stato mai davvero in discussione).
- I russi dovrebbero pesare meglio le conseguenze che la loro attività quanto meno ambigua in Libia comporta nella relazione (già parecchio traballante) fra Mosca e Bruxelles. L’UE e molti governi europei (compresi quelli che sostengono il generale Haftar) nutrono una scarsa fiducia nel fatto che la Russia possa essere un attore positivo nella crisi che affligge il paese. Le preoccupazioni europee riguardano principalmente la presenza del Gruppo Wagner nella Libia centrale e nel Fezzan. Varie fonti affidabili (Africom,[18] Bbc[19]) affermano che almeno 1.200 mercenari russi stanno combattendo a fianco dell’Esercito Nazionale Libico (Lna). Tuttavia, l’inviato speciale russo per il Medio Oriente e Nord Africa, Mikhail Bogdanov, ha ripetutamente negato la presenza di mercenari russi e il loro supporto militare al Lna, così come hanno fatto altre fonti ufficiali governative: “Informazioni diffuse da alcune fonti straniere, compreso il Dipartimento di Stato americano, che i membri del Gruppo Wagner sono presenti in Libia e partecipano alle azioni di combattimento dalla parte del Lna di Khalifa Haftar, si basa in gran parte su dati fabbricati e mira a screditare la politica russa sulla Libia”.[20] A Mosca deve essere ben chiaro che continuare a negare ciò che dall’UE è invece percepito come un dato certo, non fa che aumentare la sfiducia di quest’ultima sul ruolo della Russia (non solo in Libia, ma in tutta la regione del Mediterraneo), oltre che minare la propria credibilità.
Date queste premesse, però, europei e russi dovrebbero anche essere consapevoli dei possibili rischi che entrambi corrono se continuano a muoversi su binari paralleli escludendo ogni possibilità di dialogo. Da un lato, eludendo un dialogo con la Russia, gli europei rischiano di darle troppo spazio di manovra. L’entrata di Mosca nel conflitto, la presenza del Gruppo Wagner, il controllo russo di alcuni pozzi petroliferi in Libia, sono tutti elementi molto preoccupanti per l’UE e le potenze occidentali. Sebbene uno scenario simile a quello siriano, in cui la Russia diventa il vero mazziere della partita, sia altamente improbabile in Libia, è anche vero che la crescente presenza russa mina ugualmente gli interessi europei. Dall’altro, se continuano a pestare i piedi agli europei e non creano le condizioni per rilanciare il dialogo con l’UE e i suoi Stati membri, i russi rischiano di allontanarsi ulteriormente, o addirittura di scontrarsi anche con gli Stati Uniti. In particolare, nel caso in cui la nuova amministrazione del presidente Joe Biden dovesse tornare a un maggiore impegno politico e militare nel paese, sebbene questo sia uno scenario tutto da verificare.
In questo contesto, è dunque irrealistico immaginare una cooperazione euro-russa in Libia. Le posizioni europee e quelle della Russia appaiono inconciliabili. Anche in questo caso, l’unica possibile cooperazione sarebbe quella che miri a raggiungere un minimo denominatore comune: evitare di fomentare il conflitto (e ciò richiederebbe maggiori sforzi più da parte russa che da parte europea). A tal fine sarebbe necessario:
- Puntare a un accordo multilaterale più ampio
L’UE non può lasciare che l’influenza della Russia in Libia, così come quella della Turchia che sostiene il Gna, crescano ulteriormente. Un accordo Russia-Turchia non è nell’interesse dell’UE e, soprattutto, non ha il potenziale per stabilizzare né pacificare il paese. Troppi attori sono coinvolti che Russia e Turchia non sono in grado di rappresentare: i vicini nordafricani della Libia (Egitto, Tunisia e Algeria), ma anche Eau e Arabia Saudita riuscirebbero a muovere importanti leve e procrastinare il conflitto anche in caso di accordo Mosca-Ankara. Poco prima della Conferenza di Berlino (2020), il presidente russo Vladimir Putin e il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan hanno redatto un accordo, la cui bozza non ha mai avuto seguito. L’Europa è necessaria per interagire con i vari attori sul territorio libico e con gli attori internazionali, anche da prospettive diverse (non è un segreto, si è accennato sopra, che la Francia abbia posizioni più pro-Haftar mentre l’Italia sia pro-Gna). Tuttavia, nonostante le divergenze, nell’ultimo anno e mezzo gli interessi di Germania, Francia e Italia si sono avvicinati. Questo sforzo coordinato dell’UE dovrebbe tradursi nel contenere la presenza russa e indebolire il sostegno militare di Haftar in modo da garantire che gli attori della Cirenaica e della Tripolitania tornino ai negoziati; contenere la presenza turca e la sua assertività nel teatro del Mediterraneo orientale, a cui la questione libica è strettamente collegata; contenere i flussi migratori; lavorare per la riattivazione dell’industria energetica libica riaprendo i pozzi petroliferi; e per garantire una riforma del settore della sicurezza a lungo termine.
- Evitare il confronto Usa-Russia
La presenza russa in Libia è preoccupante non solo per gli europei ma anche per gli Stati Uniti. Questi ultimi non solo temono che un crescente ruolo della Russia ingarbuglierebbe ulteriormente il conflitto, finendo per fomentarlo, ma guardano con forte sospetto al ruolo sempre più dominante che la Russia è andata assumendo nella regione del Mediterraneo negli ultimi anni, grazie al successo registrato in Siria: è difficile immaginare che Washington permetterebbe a Mosca di aumentare la sua presenza anche in Libia. Sembra infatti che la Russia stia cercando di ottenere il controllo di alcuni importanti pozzi petroliferi nel sud del paese, come riportato da organismi indipendenti,[21] un fatto particolarmente allarmante per Washington, ma anche per l’Europa. Il controllo diretto della Russia su queste infrastrutture strategiche potrebbe persino rischiare d’innescare una risposta militare. Una polarizzazione Usa-Russia non è assolutamente desiderabile. Per i russi sarebbe probabilmente meglio collaborare con gli europei. Francia e Italia possono essere “attori ponte” con cui lavorare per raggiungere un accordo più ampio. L’Italia, ad esempio, ha buoni rapporti sia con i turchi che con i russi. ENI e Rosneft sono partner nell’esplorazione di alcuni importanti giacimenti in Libia. Roma e Mosca non sono avversarie in Libia: non hanno certo posizioni sovrapposte, ma condividono interessi simili: uno di questi sarebbe trovare un accordo sulla gestione e riapertura dei pozzi petroliferi. Ciò potrebbe ridurre il rischio di uno scontro Usa-Russia in Libia e, si spera, favorire un percorso pacifico della crisi libica.
[1] M.N. Katz, Russia and the Arab Spring, Middle East Institute, 2021.
[2] European Commission, European civil protection and humanitarian aid operations, Syria, 2020.
[3] Council of the European Union, Syria: Council response to the crisis; e Commissione europea, COM(2015) 490 final Annex 6, Gestire la crisi dei rifugiati: misure operative, finanziarie e giuridiche immediate nel quadro dell'agenda europea sulla migrazione, Bruxelles, 23 settembre 2015.
[4] H. Foy e C. Cornish, “Syria: Assad, his cousins and a Moscow skyscraper”, Financial Times., 2019.
[5] E.S. Moret, “Humanitarian impacts of economic sanctions on Iran and Syria”, European Security, vol. 24, n. 1, 2014, pp. 120-140, DOI:10.1080/09662839.2014.893427.
[6] G. Cafiero, China plays the long way in Syria, Middle East Institute, 2020.
[7] “Syria: Latest round of talks on constitution begins in Geneva”, Al Jazeera. 25 gennaio 2021.
[8]Syria Regional Refugee response. Accessed on 25 January 2021.
[9] “В Дамаске совместными усилиями дан новый импульс восстановлению мирной жизни”. КраснаяЗвезда (“A Damasco gli sforzi congiunti hanno dato un nuovo impulso al ripristino di una vita pacifica”, Stella Rossa, 13 novembre 2021).
[10] J. Barnes Dacey, A framework for European-Russian cooperation in Syria, European Council on Foreign Relations (ECFR), 2019.
[11] R. Mamedov, Сможет ли Россия восстановить Сирию, несмотря на санкции США?, Российский совет по международным делам (Riuscirà la Russia a ricostruire la Siria nonostante le sanzioni statunitensi?, Russian International Affairs Council, RIAC).
[12] J. Barnes Dacey (2019).
[13] S. Gutterman e G. Bryanski, “Russia’s Putin warns against outside interference”, Reuters, 2012.
[14] United Nations Security Council, Resolution 1973, Adopted by the Security Council at its 6498th meeting, 17 marzo 2011.
[15]МИД России сожалеет о начале авиаударов по Ливии. Газета.ру (“Il Ministero degli Esteri russo si rammarica per l’inizio degli attacchi aerei sulla Libia”, Gazeta.ru, 11 marzo 2011.
[16] C. Stephen, “Three French special forces soldiers die in Libya”, The Guardian, 20 luglio 2016.
[17] Vi era stato un tentativo, all’inizio del 2020, di portare la mediazione di Mosca nel conflitto, e cioè quando Haftar fu inviato nella capitale russa nel tentativo, fallito, di firmare un accordo per il cessate il fuoco. Un tentativo a cui però non è stato dato grande seguito, anche perché ampiamente oscurato dall’iniziativa tedesca, alla quale i russi si sono accodati.
[18] “US AFRICOM: 2000 Russian Wagner Group mercenaries are fighting for Haftar in Libya”, Libyan express, 16 giugno 2020.
[19] “Wagner, shadowy Russian military group, ‘fighting in Libya’”, BBC, 7 maggio 2020.
[20] “Russian envoy blasts ‘fabricated’ allegations of Wagner Group’s presence in Libya”, TASS, 9 giugno 2020
[21] “Russian mercenaries enter Libya’s largest oil field as Sirte battle looms”, Middle East Eye, 26 giugno 2020.