L’apertura della seconda procedura di impeachment a carico di Donald Trump – oltre a rappresentare un caso senza precedenti nella storia costituzionale degli Stati Uniti – aggiunge un ulteriore elemento di incertezza a un panorama politico già segnato – in senso negativo – dalla vicenda dei ‘Capitol Riots’. Indipendentemente da quelli che ne saranno gli sviluppi immediati, la vicenda appare, infatti, destinata ad avere ripercussioni a lungo termine non solo sul presidente uscente ma sugli stessi partiti maggiori. Oltre ad alimentare la frattura che esiste fra lo schieramento democratico e quello repubblicano, essa rischia, fra l’altro, di accentuare le divisioni che esistono al loro interno, di incidere negativamente sulla posizione della futura amministrazione Biden e di rendere più complessa la ricerca – da parte del Partito repubblicano – di un nuovo equilibro interno. La scelta di un certo numero di Rappresentanti del Grand OId Party di votare a favore dell’impeachment ha già sollevato reazioni negative sia da parte della base del partito, sia di diversi esponenti locali ed è probabile che queste prese di posizione acquistino ulteriore visibilità nei prossimi giorni.
La posta in gioco è importante. Nonostante le prese di distanza dell’ultima settimana, Donald Trump resta un elemento ‘di peso’ negli equilibri politici repubblicani. Nel 2016, il Trump candidato è riuscito a ottenere la sua contestata nomination approfittando delle divisioni interne a una macchina politica che faceva fatica a metabolizzare le frange di opposizione radicale che si erano consolidate durante gli anni dell’amministrazione Obama. Di queste frange – comprese quelle più apertamente anti-sistemiche – il Trump Presidente è stato successivamente, in più di un’occasione, il megafono. Ad esse, Trump ha dato voce, una sostanziale legittimità e – nei limiti del possibile – una bandiera unitaria. Anche per questo Trump e il trumpismo sono stati uno dei canali attraverso cui il GOP, negli ultimi anni, è riuscito a sostenere la sua maggioranza negli organi rappresentativi, sia a livello federale, sia di singoli Stati. Il prezzo da pagare è stato quello di una crescente polarizzazione dentro e fuori le istituzioni e di un parallelo irrigidimento delle posizioni del partito; un prezzo le cui implicazioni sono state rese evidenti dallo scontro sugli esiti del voto del 3 novembre.
Quella che rischia il Partito repubblicano nei prossimi mesi è, infatti, una duplice erosione dei suoi consensi: dal ‘centro’, sul fronte di quanti ritengono – anche alla luce delle violenze del 6 gennaio – che lo scontro sugli esiti del voto si sia spinto troppo oltre, e dall’‘estrema’, sul fronte di quanti ritengono, al contrario, che il confronto non sia stato spinto abbastanza a fondo, soprattutto a causa della debolezza e dell’ostilità di una parte del partito stesso, per cui Donald Trump sarebbe sempre stato una sorta di ‘corpo estraneo’. Senza dimenticare che, in termini numerici, il peso di Trump e del trumpismo si traduce negli oltre 74 milioni di voti che il presidente uscente è riuscito a raccogliere nel confronto con Joe Biden; un bacino di consenso consistente, per la cui cattura si profila uno scontro intenso, soprattutto se l’esito del nuovo impeachment dovesse condurre (come sembra ci si aspetti da parte democratica) a una interdizione perpetua del presidente uscente dai pubblici uffici. Lo scenario potrebbe essere, quindi, quello di una sorta di ‘trumpismo senza Trump’, anche se il modo in cui si potrà giungere a questo risultato non è ancora del tutto chiaro.
In questo, il confronto su Trump e il trumpismo si salda con quello più ampio sul posizionamento del Partito repubblicano nel mercato politico statunitense. Già nel 2012-13, dopo la sconfitta di Mitt Romeny nel voto che avrebbe portato alla rielezione di Barack Obama, il processo di riflessione condotto dal partito stesso (la c.d. ‘autopsia’) aveva messo in luce come l’evoluzione del profilo socio-demografico dell’elettorato statunitense stesse gradualmente intaccando la sua ‘presa’ a livello federale. Oggi, meccanismi di segmentazione sempre più raffinati e l’incrociarsi delle diverse dimensioni rilevanti (appartenenza etnica, residenza, livello di reddito e di istruzione, etc.) hanno reso il problema da un lato più urgente, dall’altro più complesso da affrontare. Sebbene la questione non sembri rientrare fra le attuali priorità del partito, quella di uscire dai tradizionali ambiti di consenso costituisce, per il GOP, una necessità che gli ultimi quattro anni hanno accentuato; una necessità che, tuttavia, si scontra sia con il modo in cui l’amministrazione uscente si è proposta agli elettori, sia con il favore che le sue scelte hanno incontrato in buona parte di questi.
Non sono considerazioni che riguardano il solo Partito repubblicano. Nonostante il successo di novembre e il controllo di amministrazione e Congresso, sul fronte democratico sembrano emergere fragilità simili. Anche per il partito dell’asinello, Donald Trump si è rivelato, sinora, un importante fattore di aggregazione; fattore di aggregazione che anche in occasione del voto ha consentito al partito di subordinare le sue molte anime all’obiettivo condiviso di evitarne la rielezione. L’interrogativo riguarda se e come questa concordanza d’intenti possa essere mantenuta una volta sgombrata la scena politica dall’ingombrante figura del presidente uscente. La posizione defilata che Biden ha assunto sul tema dell’impeachment sembra confermare queste perplessità. Un avvio di presidenza segnato dalle tensioni con la minoranza del Congresso potrebbe infatti tradursi, fra l’altro, in audizioni di conferma più complesse e potenzialmente pericolose per molte figure-chiave della nuova amministrazione e in un rallentamento dell’‘agenda dei 100 giorni’, la cui implementazione riveste, oggi, un’importanza particolare vista la difficile situazione in cui si trova il Paese.