Il ‘tweet’ con cui Donald Trump ha ventilato l’idea di posticipare la scadenza elettorale di novembre “finché il popolo americano non potrà esprimersi in modo proprio e in piena sicurezza”, evitando così il ricorso al voto postale universale, “inaccurato e fraudolento”, porta alle estreme conseguenze una posizione che il Presidente ha assunto da tempo, anche contro quella di parti importanti del Partito repubblicano. Non si tratta di una presa di posizione estemporanea; già nelle scorse settimane, ad esempio, le dichiarazioni del Presidente sull’inaffidabilità del voto postale lo avevano messo in urto anche con i vertici di Twitter, che ha etichettato alcuni contenuti dell’account @RealDonaldTrump relativi alla pericolosità di questa forma di voto come necessari di un ‘fact checking’. La nuova esternazione presidenziale è, tuttavia, importante almeno per due aspetti. Da un lato, essa sembra confermare la paura con cui la Casa Bianca guarda all’avvicinarsi di un voto che approccia di posizioni tutt’altro che favorevoli, dall’altro essa si inserisce nella linea di radicalizzazione dello scontro con l’opposizione democratica ma anche con le frange ‘moderate’ del Partito repubblicano verso cui Donald Trump sembra avere orientato questa fase della sua campagna elettorale.
Dato il profilo personale e politico del Presidente uscente, si tratta, per certi aspetti, di una scelta obbligata. Il perdurare delle tensioni che attraversano gli Stati Uniti accentua, infatti, la fragilità della posizione di Trump. L’indice di approvazione del Presidente è sceso ai livelli minimi dall’inizio dell’anno (38 percento in media secondo le ultime rilevazioni mensili di Gallup), ‘bruciando’ oltre dieci punti percentuali dalla fine di aprile. Parallelamente, i sondaggi sono concordi nell’indicare un crescente vantaggio dello sfidante Joe Biden, vantaggio anch’esso aumentato nelle ultime settimane fino a raggiungere, in alcuni casi, le due cifre. A cento giorni dal voto, questo rischia di pregiudicare in maniera irrimediabile le possibilità di rielezione di Trump, che anche in questa prospettiva ha sottolineato ripetutamente – e in toni spesso ‘sopra le righe’ – le conseguenze negative che avrebbe, per il Paese, un eventuale successo del suo avversario democratico. Quelle che attende il Presidente uscente appare, quindi, un percorso in salita, soprattutto a causa del venire meno di quelli che, fino all’inizio dell’anno, erano stati i suoi maggiori punti di forza, ovvero i benefici di un’economia in crescita dal 2010 e un tasso di disoccupazione sceso, fra il 2016 e il 2019, dal 4,7 al 3,5%.
L’interrogativo riguarda il modo in cui la Casa Bianca potrà, nei giorni che mancano al voto, cercare di recuperare terreno. Anche se la situazione appare parzialmente migliorata rispetto ad aprile, luglio ha fatto segnare un lungo stallo nella ripresa, mettendo in discussione la possibilità di un ‘colpo di coda’ dell’economia che pure alcuni analisti avevano ipotizzato nei primi giorni della crisi. Al contrario, di fronte al secondo trimestre di calo del PIL (un calo che il Bureau of Economic Analysis, nelle sue advanced estimates, ha fissato nel 32,9% conto il -4,8% del primo trimestre), da alcune parti si è cominciato a parlare apertamente di recessione. La ripresa dei contagi - soprattutto negli Stati del Sud e dell’Ovest - e la reintroduzione delle misure di contenimento dell’epidemia hanno influito su questa dinamica e, soprattutto, hanno influito sulle aspettative dell’opinione pubblica. Sebbene soprattutto la Federal Reserve continui a mostrarsi ottimista, ipotizzando una ripresa significativa del PIL durante la seconda parte dell’anno, dubbi rimangono sulla ‘qualità’ di questa ripresa, in particolare sulla sua capacità di permettere il recupero in tempi politicamene utili degli oltre dieci milioni di posti di lavoro che sono necessari a tornare ai livelli occupazionali del febbraio scorso.
Anche queste considerazioni concorrono a spiegare la conversione di Donald Trump alla linea ‘law & order’ abbracciata dopo morte di George Floyd lo scorso 25 maggio e la successiva catena di violenze. Di fronte a una situazione dell’ordine pubblico presentata come sostanzialmente fuori controllo – complice anche la passività (quando non la connivenza) di sindaci, governatori e politici democratici – il Presidente ha proposto dapprima il ricorso alle Forze Armate, quindi al personale delle agenzie federali di law enforcement. Entrambe queste iniziative sono state pesantemente criticate, fra gli altri dagli stessi vertici militari. Nel primo caso almeno, la scelta del Presidente sembra, tuttavia, essere riuscita ad accrescere (seppure limitatamente e per breve tempo) il consenso intorno alla sua figura, anche se nel secondo i sondaggi sembrano suggerire che i suoi appelli siano andati per lo più a vuoto. Secondo un sondaggio The Economist/YouGov della scorsa settimana, per esempio, solo il 38 percento degli intervistati giudica positivamente le politiche dell’amministrazione in tema di criminal justice, mentre secondo un sondaggio Washington Post/ABC News, Biden batterebbe Trump sul tema ‘crimine e sicurezza’ con il 50 percento dei consensi contro il 41 percento.
E’ comprensibile, quindi, la preoccupazione che ha cominciato a serpeggiare fra le fila repubblicane. Il calo di consensi del Presidente rischia, infatti, di riflettersi sui candidati del partito alle elezioni per la Camera dei rappresentanti e il Senato che si terranno insieme alle presidenziali di novembre, che hanno visto deteriorarsi la loro posizione anche in situazioni in cui questa, sino a poco tempo fa, era considerata relativamente sicura. A ciò si aggiunge il deteriorarsi della posizione del GOP in Stati tradizionalmente ‘rossi’ come il Texas. Diversi candidati - alcuni dei quali sinora considerati vicini a Trump - hanno cominciato a dissociare il loro nome dal suo; un fenomeno simile a quello accaduto in campo democratico in occasione del voto di midterm del 2014, quando molti candidati hanno cercato, in campagna elettorale, di prendere le distanze dell’allora impopolare Barack Obama. Si tratta, comunque, di una scelta rischiosa, specialmente negli Stati in cui il voto indipendente ha un peso importante. In questo caso, se prendere le distanze dal Presidente può permettere di recuperare fette di voto ‘non schierato’, il rischio è quello di perdere l’elettorato trumpiano, che sinora ha dimostrato una fedeltà alla figura presidenziale molto superiore a quella verso il partito.
Al di là della crescente polarizzazione della scena politica, la sfida sembra quindi essere, per molti, quella di mobilitare il voto non schierato. Sinora, la svolta ‘law & order’ del Presidente sembra avere avuto successo soprattutto presso la sua base di consenso tradizionale. Allo stesso modo, l’elettorato repubblicano sembra essere stato più attivo – nelle settimane di maggiore impatto della pandemia - per quanto riguarda l’iscrizione alle liste elettorali, colmando parte del divario che esisteva, all’inizio dell’anno, rispetto a quello democratico. Infine, fra gli elettori repubblicani, l’indice di gradimento complessivo dell’azione presidenziale è significativamente superiore rispetto alla media nazionale. Il grande interrogativo riguarda, però, la reazione dell’elettorato moderato, che se da una parte vive con timore la situazione economica e i disordini che punteggiano il Paese, disorientato anche dal processo di revisione a volte violento cui stanno andando incontro le fondamenta della ‘narrazione americana’, dall’altra sembra essere altrettanto preoccupato per quella che percepisce come la crescente invadenza del governo federale e delle sue agenzie negli affari interni degli Stati e per l’uso strumentale che il Presidente starebbe facendo del problema dell’ordine pubblico.
Nel 2016, Donald Trump ha costruito il suo successo su una strategia sfaccettata, che ha saputo da una parte trasformare in consenso la paura di buona parte dell’elettorato moderato, preoccupato di fronte al rischio di un declino relativo del proprio status sociale, dall’altra portare questo blocco di voto alle urne in un Paese in cui, dalla fine degli anni Sessanta, salvo rare eccezioni, il turnout ha sempre oscillato fra il 49 e il 55% degli aventi diritto. Sotto molti aspetti, questa strategia sembra riproporsi oggi nel tentativo del Presidente di radicalizzare lo scontro in atto, trasformandolo in una sorta di redde rationem fra due visioni radicalmente diverse degli Stati Uniti e della loro identità. Nello scenario post-COVID, davanti alle difficoltà che l’economia sta attraversando, questa torsione in termini identitari dello slogan ‘Keep America Great’ rappresenta, in qualche modo, una scelta obbligata e trova alimento anche nei ripetuti attacchi che il Presidente ha rivolto, nelle scorse settimane, alla Cina e alle organizzazioni internazionali (prima fra tutte l’Organizzazione mondiale della sanità), responsabili dirette o indirette della pandemia che ha colpito il Paese quando gli sforzi dell’amministrazione gli avevano finalmente restituito il posto nel mondo che ‘legittimamente’ doveva occupare.
La grossa differenza è che, mentre nel 2016 Trump rappresentava il cambiamento rispetto sia all’esperienza obamiana, sia alle logiche dello stesso Partito repubblicano, oggi questa carta non può più essere giocata. Anche per questo la sua campagna elettorale, prima ancora dello scoppio della pandemia, è stata costruita in un’ottica ‘continuista’; un’ottica che, con gli eventi delle ultime settimane, si è accentuata e che affiora periodicamente nelle dichiarazioni secondo cui una vittoria democratica porterebbe a una radicale messa in discussione dell’attuale ‘modello americano’. Al netto della retorica, è una strategia che potrebbe dimostrarsi pagante, soprattutto se mirata su segmenti ridotti ma elettoralmente rilevanti della popolazione. Da questo punto di vista, gli indici aggregati potrebbero quindi dimostrarsi, ancora una volta, fuorvianti. D’altra parte, l’impressione è che si tratti comunque di una strategia difensiva, anche in attesa di sapere, nei prossimi giorni, chi sarà il candidato democratico alla vicepresidenza. Mai come quest’anno, il ‘ticket’ democratico sarà, infatti, importante, tenuto anche conto dell’età di Joe Biden e di come questa potrebbe influire -- in caso di vittoria a novembre -- su una sua eventuale ricandidatura nelle presidenziali del 2024.