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Il caso di Monsef El Mkhayar

Dopo il jihad: profilo di un foreign fighter "disilluso"

Francesco Marone
28 marzo 2019

Il problema del rientro dei foreign fighters jihadisti dalle aree di conflitto appare di particolare rilevanza, specialmente dopo il crollo dell’auto-proclamato “Califfato” dello Stato Islamico in Siria e Iraq. Recentemente il Presidente statunitense Donald Trump ha riportato l’attenzione sul tema, invitando con durezza gli stati europei a rimpatriare i “propri” combattenti catturati in Siria dalle forze a maggioranza curda, alleate degli Stati Uniti.[1]

La questione riguarda anche l’Italia. Secondo le ultime informazioni ufficiali disponibili al pubblico, i combattenti stranieri legati a vario titolo al nostro Paese – e per questo monitorati dalle autorità nazionali – sono 138.[2] Un numero decisamente inferiore a quello di altri paesi dell’Europa occidentale, come la Francia (circa 1.900 individui), il Regno Unito e la Germania (poco meno di mille ciascuno) e il Belgio (circa 500).[3] Oltretutto, soltanto 25 di questi 138 soggetti hanno la cittadinanza italiana. In totale, almeno 48 “combattenti” legati all’Italia hanno già perso la vita nell’area del conflitto e 26 sono rientrati in Europa (non necessariamente in Italia);[4] di quasi la metà è quindi difficile ricostruire la sorte.

In questo contesto, particolare attenzione merita il caso di Monsef El Mkhayar, giovane marocchino partito dalla provincia di Milano con un amico nel 2015. El Mkhayar è emerso improvvisamente dal caos della guerra in Siria sabato 9 marzo con un’intervista esclusiva all’agenzia di stampa Reuters.[5] Il giovane, catturato due mesi fa dalle milizie a maggioranza curda delle SDF (Syrian Democratic Forces), ha chiesto di ritornare in Italia per iniziare “una nuova vita”, dicendosi deluso dal modo in cui l’idea del Califfato si sia effettivamente realizzata.

 

Chi è Monsef El Mkhayar?

Secondo le informazioni disponibili,[6] Monsef El Mkhayar nasce a Casablanca, Marocco, il 1° gennaio 1995 – a differenza di quanto riportato da Reuters, che gli attribuisce 22 anni. I genitori sono separati: la madre si è trasferita in Italia, mentre il padre rimane in Marocco, ma è sostanzialmente assente. Il giovane viene cresciuto di fatto dai nonni e da una zia materna, poi immigrata in Italia. Da adolescente El Mkhayar dirà di “non amare i genitori” e chiamerà la madre semplicemente “la donna che mi ha partorito”. D’altra parte, a queste carenze affettive nel nucleo familiare non corrisponde una condizione di serio disagio economico.

El Mkhayar arriva clandestinamente in Italia con un connazionale il 30 luglio 2009, a 14 anni. Non potendo contare sull’ospitalità della zia materna, stabilitasi in Piemonte, e non volendo contattare la madre, il ragazzo si decide a vivere senza fissa dimora. Trovato per strada a Torino, viene infine affidato alla madre, ma la convivenza dura ben poco. Da un lato, El Mkhayar mostra già un’indole aggressiva e violenta; dall’altro, la madre lo trascura: in una relazione, la sua assistente sociale annoterà che “la madre è poco accudente, si prostituisce […] si ubriaca”.

Dopo vari collocamenti in strutture assistenziali, nel giugno del 2010 entra per la prima volta nella comunità dell’Associazione Kayrós di Vimodrone (MI), fondata da don Claudio Burgio, cappellano dell’Istituto penale minorile “Cesare Beccaria” di Milano. 

In comunità El Mkhayar tende a rifiutare qualsiasi autorità, appare irascibile e litigioso e adotta anche comportamenti violenti, arrivando a cercare di accoltellare un altro ospite.

È credente, ma senza alcun fervore. Musulmano “autodidatta”, refrattario ad accettare la tradizione, mostra scarse competenze religiose e scarso zelo nella pratica, compresi gli obblighi delle preghiere canoniche e del digiuno nel mese di Ramadan. D’altra parte, non esita a esortare più volte il sacerdote responsabile della comunità e altri ospiti a convertirsi all’Islam. Sul piano politico, ostenta una generica ostilità nei confronti dell’Occidente, accusato di creare diseguaglianze economiche e sociali in tutto il mondo.

Come altri giovani di origini migranti, da un lato, si differenzia dal modello culturale occidentale (per esempio, cerca di evitare le scene di nudo femminile nelle pubblicità), ma, dall’altro, adotta alcuni suoi stili di vita, non senza eccessi.

Durante il soggiorno in comunità inizia a far uso di sostanze stupefacenti, pur mostrando vergogna per queste abitudini che gli appaiono non ammissibili per un “buon musulmano”. Inizia anche a spacciare droga, compresa cocaina, e per questo, viene recluso, appena maggiorenne, nel carcere milanese di San Vittore. La detenzione è di breve durata, dall’11 ottobre al 25 novembre 2013, ma ha un effetto profondo sulla sua vita.

Al ritorno in comunità, un operatore lo descrive come “irriconoscibile”. Abbandona il consumo di droghe e persino le sigarette. Forse frustrato anche dalle difficoltà nel trovare un impiego, avvia un percorso di radicalizzazione che si manifesta anche esteriormente nel cambiamento di abbigliamento e di abitudini alimentari (netto rifiuto del cibo non halal, ovvero lecito per i musulmani) e soprattutto nel contenuto dei suoi discorsi, sempre più spesso centrati sulla figura dello shahid (martire) che perde la propria vita nel jihad armato. Cresce anche la diffidenza rispetto al genere femminile, associato a potenziali disordini di carattere sessuale. Significativamente la sua visione della religione appare, oltre che estremamente rigida e semplificata, cupa, ossessionata dai temi del castigo, della violenza e della morte.

Le informazioni disponibili al pubblico non offrono indicazioni molto dettagliate sui luoghi e le tappe di questo particolare percorso di radicalizzazione jihadista. L’esperienza delle detenzione in prigione,[7] peraltro breve, costituisce, come detto, uno spartiacque in questa traiettoria, ma finora non sono emerse prove di contatti decisivi con singoli radicalizzati nell’ambiente carcerario. La frequentazione di varie moschee presumibilmente non si rivela cruciale. D’altra parte, è stata certamente importante la presenza online, sempre più assidua, su siti web e su social network radicali; El Mkhayar non esita a distribuire materiale jihadista ad altri giovani ospiti della comunità.

Il 17 gennaio 2015, pochi giorni dopo gli attacchi jihadisti contro la redazione di Charlie Hebdo ed altri luoghi di Parigi, El Mkhayar parte per la Siria con un altro ospite della comunità, Tarik Aboulala, coetaneo e connazionale: “In viaggio sulla strada di Allah”, per usare le loro parole. Aboulala ha una personalità ben diversa da quella dell’amico: mite, taciturno, con un percorso in comunità regolare e irreprensibile. Come molti altri foreign fighters jihadisti, i due giovani si recano in Turchia in aereo, dall’aeroporto di Orio al Serio, e da qui raggiungono la Siria, dove si uniscono alle file dello Stato Islamico e ricevono addestramento militare. Aboulala perde la vita in battaglia nell’aprile del 2016; sui social viene commemorato dall’amico come uno “shahid nello Stato Islamico”.

Il 18 marzo 2015, mentre è in Siria, la Procura della Repubblica di Milano emette un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per la coppia di amici. In aggiunta all’associazione all’organizzazione terroristica dello Stato Islamico, El Mkhayar è accusato di proselitismo sul web. In effetti dalla Siria il giovane prosegue a diffondere messaggi jihadisti attraverso i social network. Contatta anche ex compagni della comunità, invitandoli a seguirlo oppure intimidendoli; il 4 dicembre 2015, per esempio, scrive a un ragazzo: “Quando arrivo là ti taglio la testa. Hai visto in Francia!”, riferendosi evidentemente agli attacchi terroristici compiuti in quel Paese.[8]

Alla fine del 2016 El Mkhayar, che nel frattempo è diventato marito e padre e si è stabilito nei pressi di Raqqa, manifesta ai familiari il desiderio di ritornare in Italia, impressionato dagli orrori a cui ha assistito nell’area.

Il 13 aprile 2017 la Corte d’Assise di Milano lo condanna in absentia alla pena di otto anni di reclusione e ne dispone anche l’espulsione dal territorio italiano a pena espiata.

 

Un profilo tipico?

Rispetto alle caratteristiche socio-demografiche, il profilo di questo giovane jihadista presenta alcuni tratti che ricorrono nel contingente di foreign fighters legati all’Italia. El Mkhayar è di sesso maschile (come il 90,4% del totale, secondo una recente analisi originale dell’ISPI su 125 dei 138 combattenti[9]) e di giovane età. È nato all’estero (come il 91,2% del contingente) e – a differenza di quanto dichiarato dal giovane e riportato nell’articolo di Reuters – non ha la cittadinanza italiana (come l’80,4%).

È arrivato in Italia come migrante senza la propria famiglia e in età molto giovane, tanto che appare in una condizione per certi versi intermedia tra quella del migrante “di prima generazione” e quella dell’individuo di “seconda generazione”, figlio di migrante (la madre, in questo caso).[10] Il Marocco è peraltro il principale Paese di origine dei combattenti legati all’Italia (20,8% del totale, con riferimento al Paese di nascita) dopo la Tunisia. Come per la maggior parte degli jihadisti contemporanei attivi in Occidente, anche in questa vicenda non si palesa uno specifico interesse politico per il relativo Paese di origine; gli jihadisti si richiamano piuttosto a una visione ideologica dell’Islam globale, immaginato come monolitico e privo di specificità locali.

In Italia il giovane marocchino risiedeva in Lombardia e, in particolare, nella città metropolitana di Milano, rispettivamente la regione e la provincia italiane più interessate dal fenomeno. Non era coniugato (come il 60,8% del contingente) e, secondo le testimonianze, non aveva mai avuto relazioni sentimentali. Non aveva un impiego (come il 34,4%) e presentava un livello di istruzione basso (come l’87,7%).

In linea con un numero significativo di foreign fighters jihadisti, El Mkhayar prima di partire per la Siria, aveva già precedenti penali (come il 44% del contingente) non legati all’estremismo violento, era stato in carcere (come il 22,4%),[11] pur per un breve periodo di tempo, e aveva fatto uso di sostanze stupefacenti (come il 19,2%). D’altra parte, non vi sono indicazioni di disturbi psichici confermati da specialisti (come il 99,2%).

Al di là del sodalizio con Aboulala, prima della partenza, non faceva parte di un network radicale a livello locale, fisicamente presente sul territorio (come il 55,2% del totale), e non aveva legami noti con gruppi estremistici in Italia e in Europa (come il 71%).

Lasciata l’Italia, El Mkhayar si è unito allo Stato Islamico (come il 60,8%) e ha assunto ruoli di combattimento (come il 76,8%) nei ranghi del gruppo armato.

Come tutti gli altri combattenti jihadisti legati all’Italia, il giovane marocchino non risulta coinvolto attivamente nel supporto e tantomeno nell’esecuzione di attacchi terroristici in Europa. Nondimeno, può valer la pena di ricordare che, secondo la testimonianza di due compagni della comunità di Vimodrone, prima della partenza avrebbe cercato armi da fuoco a Milano, senza trovarle, e avrebbe espresso genericamente la sua disponibilità a compiere attacchi nel caso gli fosse stato ordinato.

D’altra parte, la vicenda di El Mkhayar presenta alcune caratteristiche peculiari e degne di nota, a cominciare dall’età (i due amici marocchini sono in assoluto tra i più giovani a esser partiti dall’Italia per il jihad armato; l’età media del contingente italiano è di 30 anni) e dal background familiare e sociale particolarmente problematico.

 

Quali motivazioni?

La questione delle motivazioni che hanno condotto il giovane ad abbandonare liberamente l’Italia per andare a combattere con un brutale gruppo jihadista è chiaramente ancora più complessa. Gli studi hanno mostrato che i fattori di spinta (push factors) sul lato della domanda individuale possono essere vari e molteplici. Alcuni di questi potrebbero sfuggire persino alla consapevolezza degli stessi soggetti.

In questa sede vale la pena di avanzare almeno un’ipotesi. Nel complesso, tra i foreign fighters jihadisti provenienti dall’Occidente le motivazioni di carattere materiale e, in particolare, economico non sembrano giocare un ruolo di primo piano. Ben più rilevanti appaiono le questioni di identità. Nello specifico, rispetto alla traiettoria di El Mkhayar viene naturale congetturare che, per reagire all’assenza dell’autorità nella cerchia familiare (genitori assenti o persino maldisposti) e al rifiuto della stessa nella sfera sociale e religiosa, il giovane possa aver ricercato una forma alternativa di legittimità e l’abbia trovata, sul lato dell’offerta organizzativa (pull factors), nel progetto ideologico, a suo modo incisivo e ambizioso, del Califfato.

Per comprendere questa particolare storia – ma non necessariamente altre – può essere utile far riferimento a un’influente interpretazione tratteggiata da Olivier Roy: secondo lo studioso francese, lo jihadismo in Europa costituirebbe una forma di ribellione giovanile, dei figli contro i padri, di matrice nichilista, nella quale la violenza e al limite la morte non sono tanto mezzi quanto fini in sé.[12] In effetti, è ben noto che l’adolescenza rappresenti una fase particolare e non di rado problematica della vita umana, di scoperta e trasformazione, in qualche modo sempre “radicale” in senso lato.[13] Può quindi accadere persino che un ribelle come il giovane Monsef decida volontariamente di entrare in un’organizzazione gerarchica fondata su regole estremamente rigide e severe, salvo poi (apparentemente) pentirsene.

D’altra parte, si segnala ancora una volta la capacità del messaggio jihadista, incarnato fino a pochi mesi fa nell’auto-proclamato Califfato in Siria e Iraq, di intercettare, a migliaia di chilometri di distanza, i bisogni e i desideri più intimi di alcuni individui (fortunatamente una sparuta minoranza) e di motivare persino questi simpatizzanti a passare personalmente dalle parole ai fatti.

 

Conclusioni

La vicenda di Monsef El Mkhayar richiama il problema delle centinaia di foreign fighters jihadisti catturati negli ultimi mesi in Siria, a seguito della ritirata militare dello Stato Islamico. Le forze a maggioranza curda, sostenute dagli Stati Uniti, hanno più volte chiesto ai paesi di origine di far rientrare i propri cittadini. Finora la maggioranza degli stati, compresi quelli europei, non si è impegnata attivamente nei rimpatri, per ragioni: legali (difficoltà nel processare e condannare questi soggetti); economiche (costi non irrilevanti per trasferimenti, processi ed eventuali iniziative di reintegrazione), politiche (reazioni negative di settori dell’opinione pubblica); e soprattutto di sicurezza (rischio di prosecuzione di attività estremistiche o persino terroristiche in patria).[14]

Sulla base delle informazioni disponibili, sotto il controllo delle SDF vi sono anche due cittadini italiani. Tra questi, come accennato, non figura El Mkhayar che, a dispetto delle sue dichiarazioni, ha soltanto passaporto marocchino. Al di là della pena inflitta dal Tribunale di Milano nel 2017, l’Italia non è quindi tenuta a farsene carico.

In generale, per i paesi occidentali rimane aperta la questione della gestione di questi individui. La vicenda di El Mkhayar suggerisce l’opportunità di tenere a mente che al percorso di disimpegno dalle attività di un gruppo estremista o al limite terroristico può non corrispondere necessariamente un processo di deradicalizzazione dei valori e degli atteggiamenti: secondo il resoconto della Reuters, il giovane marocchino, non senza ambiguità, “ha detto di credere ancora all’idea di un califfato per i musulmani, ma ha accusato i leader dello Stato Islamico di governare il territorio come ‘una mafia’”: nelle sue parole, “questa è la mia credenza e non la cambierò, ma qui nello Stato Islamico, in realtà […] non c’è giustizia”.

Questo caso segnala anche quanto possa essere complesso e delicato gestire non soltanto gli ex combattenti come El Mkhayar, ma anche le donne, come la moglie del giovane, che non hanno preso le armi perché non erano state autorizzate dai gruppi jihadisti e ancor più i bambini, come le due figlie, che non hanno nemmeno scelto liberamente di vivere nel territorio del Califfato.

In conclusione, la storia di El Mkhayar mette in luce una serie di problemi, dilemmi e incognite che molti paesi, compresa l’Italia, sono chiamati ad affrontare.

 

[1] Francesco Marone e Marco Olimpio. “Il problema dei foreign fighters catturati in Siria”, ISPI, 18 febbraio 2019.

[2] “Relazione sulla Politica dell’Informazione per la Sicurezza 2018”, Presidenza del Consiglio dei Ministri – Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, 28 febbraio 2019.

[3] Cfr. Joana Cook and Gina Vale. “From Daesh to ‘Diaspora’: Tracing the Women and Minors of the Islamic State” ICSR, 23 June 2018.

[4] “Dossier Viminale 1 Agosto 2017 – 31 Luglio 2018” Ministero dell’Interno, 15 agosto 2018.

[5] Ellen Francis. “Exclusive: Islamic State fighter wants to return to Italy, warns of ‘sleeper cells’” Reuters, 9 marzo 2019.

[6] La presente ricostruzione del profilo di El Mkhayar si basa su quattro fonti principali: 1) 1^ Corte d’Assise di Milano, Sentenza nella causa penale a carico di El Mkhayar Monsef, 13 aprile 2017 (dep. 6 luglio 2017); 2) Database originale dei foreign fighters legati all’Italia, ISPI - Osservatorio sulla radicalizzazione e il terrorismo internazionale; 3) Claudio Burgio, In viaggio verso Allah. Lettera di un prete a Monsef, giovane combattente islamico, Milano, Paoline, 2017; 4) resoconti giornalistici.

[7] Cfr. Francesco Marone. “La radicalizzazione in carcere: un rischio anche per l’Italia” ISPI, 7 marzo 2019.

[8] Cfr. Lorenzo Vidino, Francesco Marone ed Eva Entenmann, “Jihadista della porta accanto. Radicalizzazione e attacchi jihadisti in Occidente” ISPI – PoE-GWU – ICCT, 21 giugno 2017.

[9] Lorenzo Vidino e Francesco Marone. “Destinazione Jihad: i foreign fighters d’Italia” ISPI, 11 giugno 2018.

[10] Alcuni studiosi, come Rubén Rumbaut, utilizzano l’espressione “generazione 1,25” per indicare gli individui che arrivano nel Paese di destinazione durante l’adolescenza (dai 13 ai 17 anni) perché le loro esperienze sono più simili a quelle dei migranti adulti di prima generazione (“generazione 1”) che a quella dei soggetti di seconda generazione nati nel Paese (“generazione 2”).

[11] Sul cosiddetto “terror-crime nexus” si veda, in particolare, Rajan Basra and Peter R. Neumann. “Criminal Pasts, Terrorist Futures: European Jihadists and the New Crime-Terror Nexus” Perspectives on Terrorism, Vol 10, No 6, 2016.

[12] In particolare, Olivier Roy, Generazione Isis. Chi sono i giovani che scelgono il Califfato e perché combattono l’Occidente, Milano, Feltrinelli, 2017.

[13] Cfr. Alfio Maggiolini e Mauro Di Lorenzo (a cura di), Scelte estreme in adolescenza. Le ragioni emotive dei processi di radicalizzazione, Milano, Franco Angeli, 2018.

[14] Francesco Marone e Marco Olimpio. “Il problema dei foreign fighters catturati in Siria”, ISPI, 18 febbraio 2019.

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AUTORI

Francesco Marone
ISPI Research Fellow

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