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Commentary

Dopo il summit Ue: l’euro ancora in mezzo al guado

Antonio Villafranca
12 Dicembre 2011

Nel commentare i risultati dei vertici Ue degli ultimi anni ci si trova all’inizio nella scomoda posizione di oscillare tra l’apprezzamento per quello che è stato fatto (dati gli stretti vincoli politici) e la frustrazione per quello che si sarebbe potuto fare. Una sorta di reiterata indecisione tra il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, secondo quella che è ormai diventata la metafora più usata in questi casi. Il modo migliore per uscire da questa empasse è quello di valutare l’importanza della posta in gioco e capire se sono state prese misure adeguate.

In effetti la posta in gioco nell’ultimo vertice europeo era altissima, addirittura la disfatta dell’euro e con essa probabilmente la fine dell’intera integrazione europea.

Il summit è riuscito a evitare questo pericolo? A caldo la risposta non può che essere sì. Per esserne certi basti pensare il contrario. Se l’accordo non ci fosse stato le conseguenze per la moneta unica sarebbero state drammatiche e imprevedibili. All’indomani del vertice i mercati hanno invece risposto tiepidamente secondo una lettura che potrebbe essere la seguente: il pericolo imminente è stato al momento evitato, ma in futuro potrebbe ancora ripresentarsi sotto forma di un rinnovato inasprimento della crisi. A testimonianza di questo tacito monito ci sono gli interessi sui titoli di stato dei paesi dell’Eurozona più in difficoltà che lievitano ancora ben al di sopra dei bund tedeschi.

In effetti il compromesso sul nuovo Trattato solleva una serie di questioni e dubbi sintetizzabili in tre principali punti:

• enforcement delle misure adottate;

• timing e processo di ratifica;

• ampiezza e profondità delle misure.

Il primo punto si ricollega ad uno dei titoli più ricorrenti sui media all’indomani del vertice: “nasce l’Europa a due velocità”. Al di là dell’efficace suggestione giornalistica, va osservato che l’Europa a due velocità esiste già da diversi anni, e precisamente dagli inizi degli anni Novanta quando apparve chiaro che la Gran Bretagna non avrebbe scelto la strada dell’integrazione monetaria e che altri lo avrebbero fatto solo in seguito. Esiste ormai da tanti anni la divisione tra i paesi dell’Eurozona e i rimanenti dell’Unione a 27. Non sempre gli interessi degli uni sono coerenti con quelli degli altri. Ma ciò che conta (e che dal 2008 è apparso con sempre maggiore evidenza) è che le più importanti decisioni in campo economico-finanziario in Europa sono ormai prese dai primi, mentre spesso ai secondi non resta altro che adottarli. L’ormai consolidata cadenza dei summit europei – prima la riunione dell’Eurogruppo e poi del Consiglio – non è solo una questione cronologica ma soprattutto funzionale: si individuano già le soluzioni nella prima riunione e le si sottopongono a una approvazione con stretti margini di modifica nella seconda. Con la decisione di rimanere fuori dall’Euro, la Gran Bretagna si era già marginalizzata in Europa e quello che è successo nell’ultimo vertice ne è solo l’inevitabile conseguenza. Il premier Cameron aveva cercato di spezzare la logica per cui i paesi dell’Eurozona (e la Germania in particolare) decidono e poi gli altri si adeguano, chiedendo delle garanzie incluse in un’inaccettabile “lista della spesa” tesa a sottrarre la City of London alla crescente sorveglianza e regolamentazione finanziaria europea. Il costo di questa marginalizzazione è al momento piuttosto basso, soprattutto a causa della debolezza del blocco dell’euro, ma la situazione potrebbe cambiare in futuro (basti ricordare, a titolo d’esempio, la caduta della sterlina nei confronti dell’euro nei mesi successivi alla crisi del 2008). Ma a prescindere dall’interesse britannico, ciò che più conta è quello che tale scelta implica per gli altri paesi membri. Non sarà infatti possibile modificare i Trattati europei ma bisognerà scrivere un nuovo Trattato internazionale tra i paesi dell’Eurozona e gli altri che vorranno starci. Non si tratta solo di un dettaglio tecnico, in quanto ciò ha importanti ricadute in termini di enforcement. Se infatti ci fosse stata una modifica dei Trattati vigenti il quadro normativo per fare rispettare le nuove regole sarebbe stato solido e chiaro, mentre con la creazione di un Trattato del tutto nuovo (e non condiviso da tutti) rimane aperta la questione della concreta possibilità di farlo rispettare in ogni sua parte. Bisognerà aspettare i prossimi mesi per gettare maggior luce su questo punto e capire se in effetti non si sia optato per un Trattato di serie B.

Tale constatazione è legata anche al secondo punto sopra identificato: il timing e il processo di ratifica. Il nuovo Trattato dovrebbe essere pronto entro marzo; successivamente i paesi lo dovranno ratificare. Ovviamente ciò che maggiormente importa è che lo ratifichino almeno tutti i paesi dell’Eurozona, ma l’adesione preannunciata di buona parte dei rimanenti contribuirebbe a dargli maggior peso. Ciò significa che bisognerà aspettare almeno fino al prossimo maggio-giugno prima dell’entrata in vigore del nuovo Trattato, ammesso che nel frattempo tutti i Parlamenti nazionali abbiano votato a favore. Rimane peraltro al momento del tutto aperta la questione dell’eventuale ratifica irlandese mediante referendum (dall’esito tutt’altro che scontato); opzione peraltro cui potrebbero ricorrere anche altri paesi se i rispettivi governi ne fossero costretti da dinamiche politiche interne. Tutto ciò posticiperebbe non di poco l’entrata in vigore del nuovo Trattato e potrebbe creare forti tensioni sui mercati, soprattutto perché avverrebbe in un periodo di stallo (se non di piena recessione) già oggi previsto per l’Eurozona nel 2012.

L’allungamento dei tempi per l’entrata in vigore del Trattato potrebbe peraltro renderne obsoleto il contenuto, tanto più che alcune delle misure per rendere l’Eurozona una regione forte e coesa non sono contenute nel Trattato stesso. Si tocca così il terzo punto sopra richiamato, ovvero l’ampiezza e la profondità delle misure. Riguardo, in particolare, all’ampiezza va ricordato che l’euro è afflitto da un “peccato originale”, ovvero l’originaria credenza – poi rivelatasi infondata – che attraverso la creazione di una moneta unica si sarebbe generata convergenza economica in Europa. Se si guarda invece alle principali componenti della performance economica degli stati dell’Eurozona, espressa in termini di loro competitività, si osserva un andamento del tutto divergente tra i paesi virtuosi da un lato e i cosiddetti Piigs dall’altro. Nel periodo dal 2000 al 2008 la Germania è riuscita a compiere un balzo enorme in termini di surplus commerciale grazie a un efficace mix di aumento della produttività del lavoro e di moderazione salariale. L’esatto opposto è invece avvenuto nei Piigs dove la produttività del lavoro è rimasta al di sotto della media (l’Italia in alcuni anni è addirittura risultata fanalino di coda nell’Ue a 27 in termini di crescita della produttività) e i prezzi sono cresciuti sopra la media. Dunque un processo di sostanziale divergenza economica che la crisi del debito ha semplicemente messo in luce. Tale divergenza non può peraltro essere in parte ricomposta, come avverrebbe ad esempio negli Stati Uniti, attraverso un significativo trasferimento di fondi “federali” tra gli stati in surplus e quelli in difficoltà. Non si può certo contare al riguardo sul bilancio Ue che ammonta a solo l’1% del Pil europeo. Né tanto meno si può sperare che operino altri meccanismi di “riequilibrio” non statali, come ad esempio il volontario spostamento dei lavoratori dagli stati in difficoltà a quelli più ricchi (dinamica ben conosciuta negli Usa) date le barriere di vario tipo (non ultime quelle linguistiche) presenti nell’Ue. Nell’attuale contesto quindi, l’unico modo per generare un recupero di competitività dei paesi in difficoltà è di puntare su pesanti riforme strutturali (con effetti peraltro spesso non immediati) e sulla contrazione dei prezzi che una crisi economica prolungata determina. Il fatto poi che non ci sia convergenza economica e che, quindi, i vari paesi dell’Eurozona possano trovarsi in diverse posizioni del ciclo economico, può porre seri problemi all’efficacia della politica monetaria della Bce che potrebbe addirittura risultare pro-ciclica (un innalzamento dei tassi conseguente all’aumento dei prezzi nei principali paesi europei potrebbe sprofondare nella crisi paesi periferici dell’Eurozona già in difficoltà).

Quello che dunque manca nell’accordo del vertice di Bruxelles è una maggiore attenzione al più stretto coordinamento delle politiche economiche dei paesi dell’Eurozona, perché è da questo (e non solo dal coordinamento delle politiche di bilancio) che dipende in ultima istanza la convergenza economica. Quello che finora è stato fatto – inclusa la Excessive Imbalance Procedure prevista nel “Six Pack” già approvato nei mesi scorsi e da inscrivere nell’ambito del Semestre europeo – non appare ancora sufficiente e sarebbe dunque auspicabile che nel testo finale del Trattato emergesse qualcosa di più anche in questo ambito. D’altra parte se si guarda solo alle politiche di bilancio, non si potranno evitare in futuro crisi come quella spagnola, dato che Madrid presentava addirittura un surplus di bilancio prima della crisi, mentre i suoi problemi sono scaturiti dallo scoppio della bolla del mercato immobiliare e da un sistema bancario particolarmente fragile.

Con riferimento invece alla profondità delle misure adottate, quanto meno nel campo delle politiche fiscali, si può certamente affermare che si è fatto un passo avanti di portata storica. Il rigore sui conti pubblici (con la parità di bilancio inscritta nelle Costituzioni nazionali) e la capacità di imporre decisioni ai singoli stati e di attivare sanzioni automatiche sono certamente misure potenti. È tuttavia un peccato che la Germania abbia manifestato una totale chiusura verso gli Eurobonds, anche nella forma embrionale prevista dalla terza tipologia (senza condivisione di garanzie) proposta dalla Commissione nel suo ultimo Green Paper; si ammette solo la possibilità di fare ulteriori studi e valutazioni al riguardo.

Appaiono inoltre ancora fosche le misure riguardanti l’attuale Fondo salva stati, che continuerà aoperare fino al 2013, insieme allo European Stability Mechanism la cui attivazione è stata anticipata al luglio del 2012. Per volere tedesco la dotazione congiunta dei due fondi non dovrebbe eccedere i 500 miliardi di euro (quindi non un grosso passo avanti rispetto alle attuali disponibilità). Ma soprattutto appare non chiaro il ruolo della Bce, non solo nella gestione dei fondi (pur richiamata nella dichiarazione finale del summit) ma soprattutto in merito all’acquisto di titoli di stato, anche nel mercato primario. Non si sa dunque se – e fino a che punto – la Bce potrà essere coinvolta, mentre si opta per nuove risorse (fino a 200 miliardi di euro dai soli paesi dell’Ue) da girare al Fmi per aiutare i paesi in crisi. Per evitare la “no bail-out clause” dei Trattati i fondi verranno spostati dalle banche centrali nazionali al Fmi e non saranno assegnati – almeno formalmente – a un conto specifico da attivare per la sola Europa (ma ovviamente la presenza della francese Lagarde alla guida del Fondo rappresenta una garanzia in tal senso).

Tirando dunque le somme si può concludere che il vertice abbia permesso di scongiurare un pericolo imminente procedendo a riunire tanti piccoli pezzi (molti in realtà già ampiamente anticipati) che non sembrano tuttavia sufficienti a comporre il puzzle finale di un euro veramente forte. Rimangono ancora diverse incognite sui tre punti sopra indicati. La speranza è che entro marzo i dubbi vengano chiariti e che nuove misure - soprattutto nella direzione di un maggior coordinamento delle politiche economiche – vengano inserite. Il rischio sarebbe altrimenti quello di creare un altro Trattato nato già vecchio, che i mercati costringerebbero ulteriormente a modificare, ma certamente non a costo zero.

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Autori

Antonio Villafranca
Senior Research Fellow

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