Il 10 aprile scorso, l’ex Primo ministro pakistano Imran Khan è stato sfiduciato dal voto dell’Assemblea nazionale di Islamabad. L’organo elettivo federale ha posto in atto quanto previsto dall’articolo 95 della Costituzione del 1973, rimuovendo di fatto Imran Khan e ponendo fine al suo mandato.
Le ragioni dietro la mozione di sfiducia all'ex Primo ministro Khan
I partiti di opposizione al governo del Pakistan Tehreek-e-Insaf (PTI) dell’ex Primo ministro Khan avevano iniziato a progettare la mozione in marzo. Il loro principale rappresentante parlamentare, Shehbaz Sharif (ora nuovo capo dell’esecutivo), aveva articolato le motivazioni della sfiducia su due capisaldi: l’incompetenza politico-economica del governo uscente e il pesante bilancio negativo in termini di indicatori sociali che l’esecutivo ha ottenuto nei suoi quattro anni di mandato.
Prima del voto di sfiducia, Imran Khan aveva tentato l’estrema carta della dissoluzione dell’Assemblea, con la pretesa che sulla mozione di sfiducia pesassero gravi influenze straniere. Il capo del governo aveva cercato di far avallare la procedura di scioglimento al Presidente Arif Alvi (personalità fra i membri fondatori del PTI e molto vicina allo stesso Khan), ma il tutto era stato bloccato dalla Corte suprema. Si è trattata di una vera e propria crisi costituzionale. La Carta fondamentale delle leggi del paese è riuscita a resistere grazie ad un meccanismo di bilanciamento dei poteri che era stato in passato inficiato da fattori esterni (come l’intervento con la forza dell’esercito) ma che, questa volta, sembra aver retto.
Senza dubbio, le ragioni della crisi sono state in parte l’inconsistenza della politica economica del PTI e la rovinosa performance dal punto di vista degli indicatori socio-economici. Nel 2019 il governo di Islamabad era riuscito a strappare al Fondo Monetario Internazionale l’ennesimo prestito in funzione di bail-out. Tuttavia, il FMI, a seguito di una cattiva gestione economica del paese, aveva sospeso l’erogazione e istruito una successiva trattativa, che sembra aver dato i suoi frutti solo recentemente. Per ciò che concerne i risultati socio-economici, il Pakistan può vantare una serie imbarazzante di record negativi: nel 2020 il paese è risultato 151esimo su 153 paesi per la parità economica di genere, il livello percentuale di alfabetizzazione si aggira intorno al 62,5%, circa sessanta milioni di cittadini pakistani sono analfabeti e la mortalità infantile nel paese era, nel 2020, di circa 62 su 1000 (in Unione europea è di circa 3,2 su 1000). Certo, la performance del PTI è stata negativa anche perché influenzata, nell’ultimo periodo della sua gestione, dalla contingenza della guerra in Ucraina, causa di un’importante inflazione dei prezzi dei prodotti alimentari oltre che di quelli legati al mercato energetico.
Ma nella crisi politica hanno giocato un ruolo, più o meno diretto, anche altri attori. La definitiva caduta del governo, infatti, è legata a doppio filo all’abbandono dei partiti e movimenti islamici e alla mancanza di appoggio dell’esercito. Il partito Jamaat-e-Islami (JI), uno dei più antichi partiti religiosi islamici del Pakistan, è fra i primi, in marzo, a lanciare la campagna che ha portato alla rimozione del Primo ministro. Nella scelta del JI ha certamente pesato la decisione del governo di introdurre una riforma scolastica che ha attaccato i curricola studiorum religiosi.
Le forze armate, spesso arbitro dei periodi di instabilità, hanno avuto anch’esse un ruolo determinante. Ayesha Siddiqa, politologa e autrice pakistana, celebre per il suo Military Inc.: Inside Pakistan's Military Economy sulle commistioni fra potere militare e economico-politico in Pakistan, ha definito il supporto delle élites militari al governo come una parabola ascendente sino al primo anno di potere, e man mano discendente sino alle manifestazioni di piazza, scoraggiate dai militari e promosse dal PTI a seguito della sfiducia. I militari hanno appoggiato il leader del PTI come volto nuovo e non corrotto della politica, salvo poi abbandonarlo nel momento in cui l’inefficienza del governo si è rivelata. Il Capo di stato maggiore pakistano Qamar Javed Bajwa, il cui mandato era stato prorogato dal capo del governo Imran Khan, ha tra l’atro annunciato che andrà in pensione in novembre, dimostrando che la corrente dei militari che appoggiava il governo del PTI sta cambiando rotta o ripensando il proprio ruolo.
Geopolitica ed economia: le sfide del nuovo governo
Il nuovo governo pakistano, presieduto da Shehbaz Sharif, fratello dell’ex Primo ministro Nawaz Sharif e rappresentante della Lega musulmana (N, dal nome di Nawaz), avrà alcuni importanti punti sui quali concentrarsi in politica estera. Il primo è chiaramente il ruolo del dopo NATO in Afghanistan, con il PTI e Imran Khan che hanno posto il Paese sotto i riflettori come attore primario sul fronte diplomatico con il nuovo governo di Kabul. Per rimanere affidabile per i Paesi occidentali, Shehbaz Sharif dovrà poi muoversi nel sempre più angusto binario fra il peso nel contenimento dell’estremismo e la tradizionale alleanza con la Cina.
Anche le sfide economiche non mancano. Il Pakistan ha ottenuto a fine maggio un’ulteriore fiducia dal FMI per la concessione di un rinnovo di liquidità, imponendo misure di austerità come una maggiore tassazione dei carburanti. Oltre all’ottenimento della fiducia finanziaria però l’economia del paese deve essere stabilizzata per permettere uno sviluppo positivo che lo traghetti fuori da una crisi di lunga durata.
Come molte altre economie deboli nella regione dell’Asia Meridionale, il Paese ha subito l’effetto di medio termine della guerra in Ucraina. Il governo, grazie ai sostegni finanziari internazionali, ha ora un’occasione importante per dare il via ad un ciclo virtuoso che permetta la ripresa economica. Ma, in un panorama molto competitivo, in primis caratterizzato dall’instabilità afghana e dalla rivalità con l’India, non sarà di certo un compito facile.