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Commentary

Dopo l’accordo sul nucleare, l’Iran torna protagonista nel Caucaso meridionale

05 Agosto 2015

Parlando di Caucaso meridionale, si tende spesso a leggere le problematiche legate a questo contesto geopolitico da una lente russa, europea o statunitense. Molte sono le ragioni di questa scelta: pur nella diversità delle prospettive, Armenia, Azerbaigian e Georgia hanno mantenuto in seguito alla dissoluzione dell’URSS un rapporto privilegiato con Mosca; un legame che – nel caso della prima – si è visto ulteriormente rafforzato dalla recente adesione all’Unione Economica Eurasiatica voluta da Putin. All’Europa e agli Stati Uniti li legano, invece, un’importante serie di rapporti politici e commerciali, nonché interessi rilevanti nel settore energetico. Eppure, non meno importante – anche se spesso trascurata – è la prospettiva mediorientale sulla regione, come si evince dall’impatto della crisi siriana sui tre paesi. O ancora, dalle relazioni con un vicino importante, l’Iran, che dopo l’accordo di Vienna del 14 luglio si candida a giocare un ruolo da protagonista nel Caucaso meridionale. 

Una preminenza che negli ultimi anni è stata ostacolata dall’isolamento diplomatico di Teheran, ma anche e soprattutto dalle sanzioni internazionali imposte alla Repubblica islamica, che hanno reso più difficili gli scambi commerciali con i paesi in questione, limitandone il naturale sviluppo. Ora, pur nella gradualità della timeline prevista dall’intesa con i paesi del 5+1, molti di questi impedimenti verranno a cadere, e si può ragionevolmente pensare che – nel medio e nel lungo termine – si recuperi fra l’Iran e il Caucaso meridionale quella consuetudine che aveva contraddistinto larga parte della loro storia millenaria.

Si ricordi come ancora fino al trattato di Turkmenchai del 1828 parte della regione fosse sotto il dominio persiano. Prima il contesto della guerra fredda e poi anni di limitazioni imposte all’Iran post-rivoluzionario hanno fatto sì che il doppio confine con Azerbaigian e Armenia mantenesse per lungo tempo una vitalità assai limitata. Se è pur vero che paiono oggi assenti velleità di espansione della sfera di influenza iraniana nella regione, non manca nell’establishment di Teheran la percezione che questi territori siano qualcosa di più di un semplice vicinato. Se l’Iran mira a recuperare lo status che gli compete nella regione, da parte di questi paesi, invece, è forte l’attenzione alle opportunità commerciali e alle risorse, nella speranza che ciò possa contribuire a superare la crisi economica che, pur nella diversità, oggi li riguarda.

Così, per chi abbia seguito da vicino la questione, è evidente come negli ultimi mesi tutti gli attori in campo si siano preparati ad affrontare l’eventualità orami prossima di un accordo sul nucleare, che nel frattempo è arrivato. Le aspettative più grandi riguardano forse quello che dopo l’indipendenza dal blocco sovietico è stato il paese più vicino all’Iran: l’Armenia. Un legame, questo, che ha portato i due paesi a rompere un isolamento che negli ultimi anni ha pesato su entrambi: politico nel caso dell’Iran, geografico perlopiù (ma non solo) in quello dell’Armenia. Ora, l’accordo pone una serie di possibilità inedite di sviluppo per Yerevan. In primis, da un punto di vista economico, dove un Iran libero dalle sanzioni e aperto agli investimenti stranieri potrebbe compensare in parte il blocco imposto all’Armenia da Turchia e Azerbaigian. Ma anche per il Nagorno-Karabakh, riducendo le tensioni che in passato, anche dal Medio Oriente, hanno investito la regione. Dopo il fallimento dell’iniziativa diplomatica del 1992, non è da escludersi infine che l’Iran voglia rendersi protagonista di una nuova mediazione, sul modello di quanto sta avvenendo in questi giorni per il conflitto siriano.

Non mancano tuttavia spinte per impedire che queste prospettive si concretizzino, in primo luogo da parte di Mosca. Per uno sviluppo degli scambi commerciali risulta fondamentale realizzare nuove infrastrutture. A ciò – e a un’ulteriore espansione nell’acquisto di gas naturale – si oppone la Russia, timorosa di perdere il grip sull’Armenia, che ha dato negli ultimi mesi, con la protesta di Electric Yerevan, segni di turbolenza finora impensabili. Nonostante la definizione di “nuova Maidan” risulti in larga parte fuorviante, è indubbio tuttavia che l’ondata di manifestazioni che ha avuto luogo in Armenia fra giugno e luglio per il rincaro energetico nasconda un germe di insofferenza finora inedito nei confronti dello strapotere russo nel paese. Resistenze che, a maggior ragione, Mosca esercita anche per impedire che Tbilisi – dove invece di recente sta riguadagnando in influenza e consenso – giochi la carta iraniana per limitare la sua dipendenza di gas dalla Russia.

Diverso il discorso per quel che riguarda Baku. Dopo anni di tensione diplomatica – dovute fra l’altro al rapporto sempre più stretto fra Azerbaigian e Israele, essendo quest’ultimo fornitore militare di Baku – l’amministrazione Rouhani si è impegnata per una distensione che pare dare buoni risultati. Certo, permangono motivi di frizione difficilmente eludibili, dalla rivalità energetica, alla presenza di una fortissima componente azera nella società iraniana, fino al rapporto così diverso in essere nei due paesi fra potere e religione. Al di là delle considerazioni politiche, comunque, i due paesi puntano soprattutto a fare affari e, eventualmente, a sviluppare collaborazioni per il transito energetico.

Come detto, per avere un quadro completo del nuovo engagement dell’Iran nel Caucaso meridionale si dovrà attendere qualche anno. Ma la prospettiva è aperta e non si tratta certo di una questione di secondaria importanza: d’ora in avanti, lo scenario caucasico ha un protagonista in più da tenere in considerazione. Più che di una vera novità, comunque, si tratta di un ritorno.

Simone Zoppellaro, Osservatorio Balcani e Caucaso 

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