Lo scorso 9 marzo la Corea del Sud si è recata ai seggi per eleggere il nuovo presidente della repubblica. La fotografia del paese che ci è stata restituita durante lo spoglio del voto è quella di un paese spaccato in due, tanto che il risultato finale ha visto uno scarto tra i due contendenti di appena lo 0,73%. Per appena 247.000 voti, il candidato conservatore Yoon Suk-yeol (48,56% dei voti) si è imposto su quello democratico Lee Jae-myung (47,83%) e si insedierà come nuovo presidente il prossimo 10 maggio.
A Seul si prepara dunque un cambio di governo. Dopo l’amministrazione democratica del presidente Moon Jae-in, il pendolo della politica sudcoreana è oscillato verso destra col ritorno dei conservatori alla presidenza dopo appena cinque anni. Il risultato ottenuto è tanto più importante se si pensa che solo nell’aprile 2020 i democratici avevano vinto le elezioni parlamentari con ampio margine.
Il presidente eletto Yoon è un personaggio sui generis. Dopo aver condotto l’indagine che portò alla destituzione dell’allora presidente conservatrice Park Geun-hye, Moon Jae-in lo ha nominato procuratore generale nel 2019 incoraggiandolo a combattere la corruzione. Da quel momento però Yoon ha preso di mira molti alleati del presidente, causando irritazione nel governo democratico che per due volte ha tentato di rimuoverlo dalla carica. Nel marzo 2021 Yoon però si è dimesso da solo in protesta con la riforma della giustizia varata da Moon, accusando il presidente di voler minare la democrazia e lo stato di diritto. Inizialmente indipendente, l’ex procuratore ha aderito al partito conservatore solo l’estate scorsa ma è riuscito comunque a vincere la candidatura alle presidenziali. La campagna di Yoon non è stata priva di inciampi, anche per via della sua figura intransigente e controversa: oltre alla retorica ferocemente anti-comunista e alle accuse verso i democratici di voler segretamente sovvertire la democrazia liberale per instaurare un regime socialista, hanno suscitato scalpore il commento di Yoon sull’ex dittatore sudcoreano Chun Doo-hwan (in cui molti hanno letto un certo apprezzamento) e l’evidente insincerità delle successive scuse in pubblico.
Cosa ci dice quindi il voto del 9 marzo sullo stato della democrazia sudcoreana? Quali sono le fratture sociali messe in evidenza durante la campagna elettorale? E cosa dobbiamo aspettarci oggi dalla quarta economia più ricca dell’Asia?
Come è andata la campagna elettorale
La campagna elettorale è stata una delle meno costruttive nella breve storia democratica del paese, tanto che in ambito giornalistico si è parlato spesso di “elezione spiacevole”. Nonostante i programmi politici proposti dal Partito Democratico (DPK) di Lee e dal Partito del Potere Popolare (PPP) di Yoon, il dibattito pubblico si è focalizzato su tutt’altro e ha assunto toni eccessivamente polemici e denigratori. Yoon è stato accusato dai democratici di avvalersi dei consigli di sciamani e indovini, nonché di aver evitato la leva militare obbligatoria mentendo sui risultati delle proprie visite oculistiche. Il candidato conservatore invece ha preso di mira Lee accusandolo di essere coinvolto in un grave scandalo di favoritismo, risalente al 2015 quando era sindaco di Seongnam, riguardo un progetto di sviluppo immobiliare. Nemmeno le rispettive famiglie sono state risparmiate: per esempio la moglie di Yoon è stata accusata di aver mentito sulle proprie credenziali lavorative, mentre la moglie di Lee è stata tacciata di abuso di potere obbligando funzionari pubblici a svolgere commissioni personali quando il marito era governatore della provincia di Gyeonggi. La campagna elettorale è stata piena di invettive e diffamazioni di questo genere, arrivando a inserirsi anche nei dibattiti TV tra i candidati. Non bisogna stupirsi quindi se nei mesi antecedenti al voto oltre il 60% degli elettori esprimeva rassegnazione riconoscendo di essere costretti a votare per il candidato meno peggio.
Le proposte politiche, come detto, sono passate in secondo piano e oltretutto a molti osservatori queste sono sembrate comunque parecchio carenti. Basti pensare al fatto che nessuno dei due candidati ha dedicato spazio a come affrontare il problema della concentrazione economica e degli abusi di potere rappresentato dalle chaebol, i grandi conglomerati industriali che dominano il PIL sudcoreano. Anche il tema della disoccupazione giovanile e dell’estrema competizione nel mercato del lavoro è stato trattato in modo molto approssimativo.
Lo scontro politico però non è stato del tutto assente. Sul tema della ripresa post-Covid, i due candidati si sono criticati apertamente: Lee aveva ventilato la possibilità di introdurre un reddito minimo per tutti i cittadini sudcoreani, con una particolare attenzione ai giovani, mentre Yoon aveva proposto un sussidio per i piccoli commercianti e i lavoratori autonomi colpiti duramente dalla pandemia e dalle restrizioni imposte dalle autorità. Durante la campagna elettorale però Lee ha fatto calare il silenzio sulla propria proposta e in un dibattito TV ha sostenuto che, contrariamente a quanto scritto nel proprio programma elettorale, il suo governo non avrebbe alzato le tasse sugli immobili e sulle emissioni per finanziare il reddito minimo mettendone così implicitamente in dubbio l’effettiva eseguibilità finanziaria. Anche il tema dell’immigrazione ha suscitato dibattito, in particolare quando Yoon ha suggerito di restringere l’acceso al servizio sanitario nazionale descrivendo gli stranieri come intenzionati a “mettere il proprio cucchiaio su una tavola che è stata preparata per i cittadini coreani”.
Lo scontro vero è stato però sul tema dell’immobiliare e della parità di genere. Lo stesso Lee ha tentato di distanziarsi dalle politiche fallimentari del governo democratico di Moon, che non sono riuscite a frenare (e anzi, per certi versi hanno pure involontariamente rafforzato) l’aumento vertiginoso dei prezzi delle case: dall’insediamento di Moon nel 2017 i prezzi sono aumentati del 30,6% nel paese, e nella capitale Seul addirittura del 46%. Entrambi i candidati avevano espresso intenzione di stabilizzare il mercato immobiliare ampliando l’offerta di case ma mentre Lee ha sostenuto una maggiore regolamentazione che disincentivasse la speculazione, Yoon ha proposto un abbassamento della tassazione. Ma a scaldare ulteriormente gli animi è stato senza dubbio il tema del femminismo. Yoon ha attirato critiche veementi con le sue posizioni antifemministe, in particolare con la proposta di abolire il ministero per la parità di genere e inasprire le pene contro le false accuse di molestie sessuali. Il candidato conservatore ha anche affermato che a suo parere in Corea del Sud non ci sia più una discriminazione di genere strutturale, nonostante numerosi indici socio-economici suggeriscano il contrario. Dal canto suo, Lee non ha controbattuto con forza durante la campagna elettorale, limitandosi a criticare tutte le forme di discriminazione di genere e inquadrando il tema come un problema di mancanza di opportunità in una società ultra-competitiva.
Come hanno votato i coreani
Il primo dato da osservare per capire il voto del 9 marzo è quello dell’affluenza, che si è attestata al 77,1%, in linea col voto di cinque anni fa. Le variazioni di affluenza tra i gruppi demografici, però, sono il primo elemento per capire il risultato: il gruppo che ha partecipato maggiormente è stato quello degli ultra-60enni con l’84,4%, seguito dai 50enni con l’81,9%, i 40enni con il 70,4%, i 30enni col 69,3% e i 20enni col 65,3%. Gli ultra-60enni, che hanno vissuto la guerra di Corea e l’era dello sviluppo economico sotto la dittatura anticomunista, sono tendenzialmente conservatori e a queste elezioni il 67,1% di loro ha votato per Yoon. La fascia tra i 40 e i 50, invece, cioè cittadini formatisi nel periodo della democratizzazione, sostiene tradizionalmente il DPK. Per Lee ha votato il 52,4% dei 50enni e il 60,5% dei 40enni. Un dato importante sottolineato dal quotidiano JoongAng è stata l’alta affluenza degli elettori affidabilmente conservatori, mentre quelli che si identificavano di più nell’area democratica non si sono presentati ai seggi in numeri paragonabili: rispetto al 2017 infatti l’affluenza dei 40enni è stata più bassa del 4,5%.
I 20-30enni vengono considerati elettori svincolati dalle fedeltà di partito e infatti in questa fascia nessuno dei due candidati è riuscito a superare la soglia del 50%, sebbene Yoon avesse un leggero vantaggio tra i 30enni (48,1% contro 46,3%) e Lee tra i 20enni (47,8% contro 45,5%). Tuttavia, la differenziazione partitica in questa categoria demografica non è data dall’età come per le altre bensì dal genere, in particolar modo tra i giovanissimi: Yoon infatti ha ottenuto il 58,7% del voto dei maschi 20enni e il 52,8% dei maschi 30enni mentre Lee è stato supportato dal 58% delle donne 20enni e dal 49,7% delle donne 30enni. La polarizzazione politica sulla base del genere è stato sicuramente l’elemento di maggior novità di questa elezione.
Ciò che invece non ha sorpreso è stato il riemergere della tradizionale divisione geografica del voto: nelle province sud-occidentali (Jeolla-buk, Jeolla-nam e Gwangju) Lee ha ricevuto più dell’80% dei voti, mentre nelle province sud-orientali (Gyeongsang-buk e Daegu) la percentuale di Yoon è stata sopra al 70%, con risultati superiori al 55% anche a Gyeongsang-nam, Busan e Ulsan. Il vero terreno dello scontro tra i candidati sono stati Seul e la provincia che le fa da periferia, Gyeonggi, dove si concentra gran parte della popolazione sudcoreana: Lee è riuscito a prevalere nella provincia e nella vicina Incheon, ma il PPP si è imposto nella capitale. Nel resto del paese quasi tutte le province hanno votato per Yoon.
Un voto su Moon Jae-in
La cosa che più colpisce della sconfitta democratica è che è avvenuta mentre i sondaggi registravano il sostegno al presidente uscente più alto di sempre: il 42,7% dei sudcoreani valuta positivamente il governo democratico di Moon Jae-in. Secondo lo stesso sondaggio, però, il 54,2% giudicava negativamente il suo quinquennio. La domanda che quindi sorge spontanea è se la sconfitta di Lee Jae-myung in realtà non sia stata un voto di sfiducia nei confronti del governo uscente.
Questa ipotesi ha un proprio fondamento, a cominciare dai ripetuti tentativi di Lee di distanziarsi dal suo compagno di partito e dai sondaggi pre-elettorali che riportavano come il 50% degli intervistati desiderasse un cambio di governo. I dati sui flussi di voti poi suggeriscono che il 25% degli elettori che nel 2017 hanno votato per Moon questa volta abbiano votato per Yoon. La radice di questo scontento va individuata nella delusione delle aspettative che l’elezione di Moon aveva nutrito nel 2017. Arrivato alla presidenza dopo la tumultuosa destituzione di Park con grandi promesse di riforma e di giustizia sociale, il suo governo non è riuscito a tenere fede agli impegni. La rivoluzione economica si è arginata molto presto e la riforma delle chaebol non è stata abbastanza coraggiosa, nonostante l’ampia maggioranza democratica in parlamento. Anche la politica di apertura verso la Corea del Nord deve scontrarsi con un crescente sentimento di diffidenza se non proprio ostilità tra la popolazione sudcoreana.
Certamente la pandemia ha sparigliato tutte le carte in tavola per Moon, imponendo nuove priorità e nuovi ostacoli, e il governo è anche riuscito ad approvare piani ambiziosi come la riforma della giustizia e il piano di rilancio industriale noto come Korean New Deal. Ma la sensazione, soprattutto tra i giovani costretti a convivere con una diffusa angoscia generazionale, è che il DPK non sia stato del tutto all’altezza delle aspettative. Oltre a non aver introdotto facce nuove e giovani nella propria dirigenza, i democratici sono stati rincorsi dagli scandali per tutti gli ultimi cinque anni (nonostante Moon stesso non sia mai stato coinvolto personalmente). Il caso più eclatante forse è quello del ministro della giustizia Cho Kuk, che è stato accusato di aver falsificato credenziali accademiche per far entrare sua figlia in una prestigiosa università sudcoreana.
Il tema che però ha minato più fortemente la credibilità di Moon e del suo DPK è stata la malagestione della crisi immobiliare, che in un paese dove il 64,4% della ricchezza familiare è composto da beni non-finanziari (come la proprietà di una casa) è un problema di carattere nazionale. Le politiche di Moon hanno esacerbato un mercato già di per sé asfittico, facendo impennare ulteriormente i prezzi delle case. Aumentando le tasse sulla compravendita immobiliare e abbassando il tetto massimo che un mutuo può coprire sulla spesa di acquisto della casa, il governo democratico sperava di frenare la speculazione, ma ha invece ristretto notevolmente il mercato e impedito di fatto a molti giovani acquirenti di comprare casa con un mutuo. L’aumento dei prezzi degli immobili poi ha fatto lievitare anche il valore delle case e con esso pure le tasse calcolate sul valore di mercato, andando a colpire il portafoglio dei proprietari. L’effetto politico è stato catastrofico per il DPK e viene ben rappresentato sulla mappa elettorale: nonostante Lee abbia vinto a Gyeonggi, alcuni distretti benestanti e sobborghi residenziali della provincia hanno votato a maggioranza per Yoon. Seul è un esempio ancora più evidente. Non solo i conservatori sono riusciti a riprendersi i tre distretti più benestanti della capitale (Gangnam, Seocho e Songpa) che nel 2017 avevano votato per Moon, ma hanno anche conquistato alcuni distretti che erano considerati saldamente democratici (Gwangjin, Mapo, Dongjak e Yeongdeungpo). Questi dati, poi, trovano riscontro in un exit poll, secondo il quale Yoon aveva un vantaggio del 3,7% tra i proprietari di una casa e del 5% tra quelli di molteplici immobili.
È in corso un conflitto di genere
A guardare i dati, la Corea del Sud si classifica 102esima su 156 per parità di genere e il divario salariale tra uomini e donne è il più profondo dei paesi OCSE (-31,5%). A ciò vanno poi aggiunti le molestie e i crimini a sfondo sessuale che moltissime donne hanno denunciato nel paese, come ad esempio il problema delle telecamere-spia nascoste nei bagni. Queste sono alcune delle ragioni che hanno sostenuto la crescita del movimento femminista sudcoreano, che negli ultimi anni grazie anche a un momento #metoo è riuscito a far sentire la propria voce e portare le proprie rivendicazioni al centro dell’attenzione pubblica.
Parallelamente, però, si è affermata una reazione anti-femminista. Nell’ultimo anno questo movimento è diventato una forza sociale non più trascurabile, tanto da indurre alcune aziende a scusarsi pubblicamente per aver inserito nelle proprie campagne pubblicitarie degli elementi grafici che il movimento riconduce all’immaginario del femminismo radicale e accusa di promuovere la misandria.
L’origine di questo risentimento viene ricollegata al fatto che in Corea del Sud è ancora in vigore la leva militare obbligatoria, della durata minima di 18 mesi, alla quale però sono vincolati solo i maschi. Molti sudcoreani lo considerano come un privilegio delle loro coetanee, alle quali è permesso un vantaggio temporale consistente per intraprendere una carriera lavorativa. Questa percezione si combina a un mercato del lavoro dove la concorrenza è sempre più spietata, generando così, in un paese dai forti tratti maschilisti, un’angoscia che con l’emergere del #metoo si è radicalizzata. I sondaggi catturano bene queste attitudini: l’Hankook Ilbo nel 2021 ha riportato che tra i maschi 20enni il 78,9% si sentiva vittima di discriminazioni di genere.
A ciò poi si sono aggiunte le scelte politiche di Moon, che nel 2017 aveva dichiarato di voler diventare un presidente femminista. Una volta in carica, Moon ha incoraggiato le aziende ad aumentare il numero di dirigenti donne e promesso di nominare un gabinetto con almeno il 30% di donne, suscitando il risentimento anti-femminista e rafforzando la virata verso destra di molti giovani sudcoreani. Yoon ha quindi cavalcato questo sentimento con le proprie proposte elettorali, affermando che i soldi spesi per i progetti sulla promozione della parità di genere andrebbero invece impiegati per contrastare la minaccia militare nordcoreana. La strategia elettorale però si è ritorta contro i conservatori: nonostante nei sondaggi elettorali il segmento femminile dell’elettorato giovane non presentasse una forte polarizzazione in favore del DPK, al momento del voto le giovani sudcoreane hanno in larga parte deciso di sostenere il rivale di Yoon.
Politica e società escono dal voto divisi e confusi
Il paese esce dal voto del 9 marzo cristallizzando le proprie divisioni interne. Il conflitto di genere tra i giovani è talmente intenso che alcuni post su siti internet femministi in cui discuteva la possibilità di assassinare Yoon hanno messo in allerta la polizia. Le utenti hanno risposto che si trattava semplicemente di meme che riprendevano ironicamente lo stile comunicativo degli anti-femministi. A prescindere dalla fondatezza dei post, la vicenda indica il livello di sensibilità raggiunto dal conflitto.
La polarizzazione però non riguarda solo i giovani ma tutta la società. Come riportato dai sondaggi di Realmeter, Yoon non è riuscito a convincere tutti gli elettori a credere nelle proprie capacità di guidare il paese: nei giorni successivi al voto, la percentuale di sudcoreani che riteneva che Yoon avrebbe fatto un buon lavoro da presidente era del 52,7% e a due settimane dal voto è scesa a 46%. I pessimisti oggi sono il 49,6%, lasciando intendere che la Corea del Sud rimane divisa sull’esito del voto.
Questa spaccatura renderà difficile governare il paese, soprattutto considerando il fatto che mentre la presidenza diventerà conservatrice il parlamento rimarrà nelle mani del DPK, che quindi avrà il potere di bloccare gran parte delle riforme proposte dal PPP. Yoon nel proprio discorso dopo la vittoria ha riconosciuto questa situazione facendo un appello all’unità nazionale e aprendo alla sinistra nominando Kim Han-gil, un ex politico democratico, nel proprio comitato di transizione presidenziale. La cooperazione tra DPK e PPP sarà però molto difficile, soprattutto a causa dei movimenti interni ai due partiti.
La dirigenza democratica ha dato le dimissioni in blocco dopo la sconfitta. Nonostante il partito stia cercando nuovi volti per guidarlo, alcuni segnali indicano che Lee Jae-myung possa rimanere una figura centrale per la guida del DPK e ciò potrebbe essere problematico. Le accuse di corruzione nello scandalo di sviluppo immobiliare a Seongnam sono state un argomento chiave della campagna di Yoon ed è probabile che il caso rimanga un elemento centrale della strategia politica e comunicativa dei conservatori. Non solo: durante la campagna elettorale, Yoon aveva anche promesso di mettere sotto indagine per corruzione l’amministrazione di Moon. Gran parte dei dirigenti del DPK quindi percepisce l’elezione di Yoon come una minaccia personale e le loro valutazioni sull’effettivo rischio di essere processati peseranno sulla disponibilità del DPK a cooperare col presidente conservatore in parlamento.
Anche il corso post-elettorale che il DPK sembra aver intrapreso non lascia molte speranze al PPP di trovare un parlamento collaborativo. Il comitato di emergenza che ha preso la guida del partito è co-presieduto da Park Ji-hyun, una giovane attivista 26enne entrata in politica a gennaio e nota per aver fatto emergere un grosso caso di ricatti e abusi online a sfondo sessuale. A ciò si sta accompagnando una ricostruzione della propria immagine pubblica per consolidare la presa del partito tra le giovani donne, che, se avrà successo, renderà il DPK verosimilmente meno disponibile al compromesso con Yoon.
Dal lato conservatore le cose non vanno meglio e nonostante la vittoria il PPP fatica a rimanere compatto. La vittoria di un outsider che è riuscito in pochi mesi a completare la scalata del partito ha stravolto gli equilibri interni e ciò è ben visibile dalle divisioni che stanno emergendo tra i capigruppo tradizionali del partito e la cerchia ristretta di Yoon, sia per la formazione del nuovo governo sia per le nomine delle elezioni amministrative che dovranno avere luogo a giugno. A questi problemi di organizzazione interna si aggiunge poi anche quello della fusione col partito centrista di Ahn Cheol-soo, un candidato minore dell’opposizione che durante la campagna elettorale si era accordato col PPP per ritirarsi e sostenere ufficialmente Yoon. Ahn, che al momento è stato messo alla guida del comitato di transizione, potrebbe fungere da freno ad alcune delle tendenze più radicali del nuovo governo conservatore, come ad esempio sulle politiche di genere. Ciò però significherebbe dover smorzare uno dei punti chiave della campagna elettorale del PPP, al quale Yoon non è disposto a rinunciare.
Dove va la Corea del Sud
Alcuni di questi elementi sono molto familiari a chi osserva la politica sudcoreana, normalmente molto riottosa e fondata più sui singoli politici che sui partiti. Anche per questo motivo, governare la Corea del Sud è sempre stato un complesso equilibrio di accordi tra rivali e intense ostilità anche all’interno dello stesso partito. L’elemento nuovo che queste elezioni hanno introdotto è una polarizzazione molto più consolidata dell’elettorato generale, che renderà più costoso in termini di consenso collaborare con gli avversari politici. Ciò è diventato visibile nelle prime settimane della transizione, quando Yoon e Moon hanno cancellato l’incontro tra il presidente eletto e quello in carica. Quello che doveva essere un semplice faccia a faccia di rito per scambiarsi gli omaggi è diventato un argomento politicamente sensibile. Lunedì in serata, i due si sono finalmente incontrati. Ma le parole di Yoon, che ha detto che “probabilmente parleremo di temi che richiederanno di coordinarci separatamente”, indicano che la politica sudcoreana dopo l’elezione del 9 marzo si orienterà nel senso di una crescente polarizzazione.