La ricostruzione dell’Iraq non sarà solo un’immensa impresa edilizia. Le proteste represse nel sangue da ottobre oggi chiedono una classe politica nuova, capace di portare il paese fuori dagli incubi degli ultimi dieci anni.
Torna al Dossier
Le dimissioni del primo ministro Adil Abdul-Mahdi, formalmente accettate dal parlamento iracheno il primo dicembre 2019, rappresentano un’importante ma amara vittoria per il movimento di protesta che scuote l’Iraq da ottobre di quest’anno: gli scontri con le forze di sicurezza (ufficiali e non) hanno portato a oltre 400 morti e 19.000 feriti, a cui si devono aggiungere alcuni casi di attivisti sequestrati.
Il movimento di protesta iniziato il 1° di ottobre non si è arreso alla dura repressione messa in atto dal governo iracheno; al contrario, la sua forza è cresciuta con il tempo. I manifestanti hanno continuato a riempire le piazze di Baghdad e di altre città nel sud del paese, soprattutto Kerbela e Najaf – principali centri religiosi. Le dimissioni di Adil Abdul-Mahdi sono arrivate nelle ore successive a un messaggio del Grande Ayatollah Ali al-Sistani in cui l’alta carica religiosa chiedeva al parlamento di smettere di procrastinare sul futuro del paese. Tuttavia, la marjahiyya ha chiarito che non intende essere coinvolta nella formazione del governo e che non permetterà che le parti strumentalizzino il suo ruolo. Le dimissioni del primo ministro sono state celebrate come una vittoria dal movimento di protesta, ma le richieste provenienti dalla piazza vanno ben oltre.
Nei prossimi mesi il paese dovrà affrontare diverse sfide importanti.
La classe politica irachena deve innanzitutto trovare un accordo sul successore di Adil Abdul-Mahdi. Dopo che il parlamento ha accettato le dimissioni del primo ministro, il presidente iracheno, Barham Saleh, ha 15 giorni per nominare un nuovo primo ministro, espressione del blocco vincitore in parlamento. Quest’ultimo (il maschile è quasi d’obbligo!) ha poi 30 giorni per formare il governo. La storia recente irachena non è di buon auspicio: a ogni nuova tornata elettorale, la formazione di un governo ha sempre richiesto tempi lunghissimi. Il governo di Abdul-Mahdi, ad esempio, si è insediato dopo più di 5 mesi dalle ultime elezioni (maggio 2018), senza, peraltro, che si fosse raggiunto un accordo su tutti i ministeri.
La scelta sarà dettata dalla consueta lotta tra i principali partiti politici, tutti poco propensi ad accettare un vero cambiamento nel fragile equilibrio di potere iracheno. Le due coalizioni più importanti in parlamento sono quelle guidate da Moqtada al-Sadr e Hadi-al Amiri. La prima comprende la lista Sa'irun (l’alleanza politica tra il movimento sadrista e quello civile), insieme alle liste guidate da Hayder al-Abadi e Hammar al-Hakim. La seconda riunisce invece una parte delle Hashd al-Shaabi, le milizie create per fermare l’avanzata dello Stato Islamico, e la lista afferente a Nuri al-Maliki, e gode del supporto iraniano. Tra i due leader non corre buon sangue, soprattutto da quando la svolta in chiave nazionalista di Muqtada al-Sadr lo ha portato a denunciare le intromissioni iraniane nel paese.
È inoltre cosa nota che i primi ministri iracheni abbiano, negli ultimi anni, dovuto incontrare anche il favore delle controparti iraniana e americana. Gli avvenimenti recenti complicano però l’identificazione di un leader che possa compiacere entrambi i paesi. Da una parte, le piazze irachene hanno chiaramente dimostrato di non apprezzare le interferenze iraniane, cosa che complica il ruolo dell’Iran nel futuro governo iracheno. Dall’altra, i rapporti tra Iran e Stati Uniti sono molto tesi e l’Iraq rischia di diventare teatro dello scontro. Entrambi i paesi non vogliono vedere l’Iraq discendere nel caos, ma oltre alla stabilità hanno pochi obiettivi in comune.
Sempre nel breve periodo, la classe politica irachena (e anche il movimento di protesta) deve evitare che la situazione degeneri in aperta violenza. Diversi sono già stati gli episodi violenti, ad esempio lo scontro che ha visto la morte di 45 civili per mano delle forze di sicurezza a Nasiriyah, in rappresaglia all’attacco al consolato iraniano a Najaf. O anche la violenta contro-manifestazione a Baghdad, che ha portato in piazza diversi sostenitori delle Hashd al-Shaabi. Il paese si è da poco lasciato alle spalle la brutalità dello Stato Islamico, ma il tessuto socioeconomico rimane estremamente debole e un’ulteriore ondata di violenza sarebbe fatale.
Nel medio-lungo periodo le sfide non sono da meno. Per rispondere alle domande dei manifestanti, infatti, il paese dovrebbe avviare un profondo processo di riforme che al di fuori delle piazze pochi sono veramente interessati a intraprendere. Alle richieste per migliorare la condizione socio-economica del paese si sono aggiunte rivendicazioni squisitamente politiche (come ad esempio, la stesura di una nuova legge elettorale che scardini il sistema di distribuzione delle cariche su base settaria), che questa volta intendono promuovere un cambiamento radicale del sistema politico iracheno e dei cardini su cui esso poggia: corruzione, settarismo e coercizione.
È necessario quindi per la classe politica irachena districare questa situazione estremamente complicata. Avendo portato la popolazione al limite della sopportazione, deve dare risposte immediate alle richieste dei manifestanti, nella consapevolezza che non esistono scorciatoie alla soluzione dei problemi che attanagliano l’Iraq. A meno che la politica non scelga nuovamente la strada della repressione, rischiando di esacerbare ulteriormente la tensione. La piazza rimarrà vigile e non si accontenterà di misure di facciata, dovrà però fare anche i conti con la necessità di formulare aspettative credibili su ciò che può essere raggiunto entro la fine della prossima legislatura.