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VALUTE

Dopo l'Ucraina, una nuova Bretton Woods monetaria?

Luca Fantacci
|
Lucio Gobbi
18 marzo 2022

Il blocco delle riserve della Banca centrale russa costituisce un pericoloso precedente che potrebbe indurre altre banche centrali a ridurre (ancor più rapidamente di quanto abbiano fatto in passato) la quota di riserve detenuta in dollari. Ma che cosa potrebbe sostituire quei dollari? È  plausibile che la valuta cinese guadagni corso come strumento di regolamento e di riserva a livello internazionale? E che ruolo possono avere i metalli preziosi e le materie prime come strumento di riserva?

 

Yuan verso un rafforzamento

Nonostante da più di dieci anni si preannunci l’internazionalizzazione dello yuan, il suo ruolo sembra ad oggi ancora marginale. Secondo gli ultimi dati FMI, le riserve delle banche centrali erano composte per il 59,1% da dollari, per il 20,5% da euro e solo per il 2,7% da yuan.

A dispetto del tentativo esplicito di de-dollarizzare le sue riserve valutarie nel corso degli ultimi anni, perfino la Russia non è riuscita a diversificare granché. Secondo Reuters, a metà 2021, la Banca centrale russa aveva drasticamente ridotto la sua esposizione verso la valuta americana, detenendo le proprie riserve per il 32,3% in euro, 21,7% in oro, 16,4% in dollari e 13,1% in yuan. Tuttavia, come si vede, le riserve in yuan sono ancora al quarto posto. Del resto, la Cina ha legami commerciali assai più forti con gli Stati Uniti che con la Russia: circa la metà delle esportazioni cinesi sono dirette verso USA, UE, Regno Unito e i loro alleati in Asia; solo il 2% vanno in Russia (dati Banca Mondiale).

 

Nemmeno la precoce introduzione di una Central Bank Digital Currency (CBDC) sembra in grado di accelerare l’internazionalizzazione dello yuan che, secondo alcuni osservatori, costituirebbe un fine importante, seppur non dichiarato, dell’adozione di una moneta digitale. Allo stato attuale, lo yuan digitale non rappresenta un’alternativa al dollaro per i pagamenti internazionali, come ha argomentato recentemente anche il Financial Times: il suo uso è perlopiù confinato ai pagamenti interni, dove peraltro rappresenta soltanto lo 0,002% dei pagamenti digitali complessivi. Vi sono, però, alcuni segnali che suggeriscono maggior cautela nel negare che lo yuan possa avere un futuro come moneta internazionale, quantomeno nel medio-lungo termine.

Innanzitutto, rimanendo sul piano della moneta digitale, da più di un anno ormai la Cina ha avviato con Hong Kong, Thailandia, Emirati Arabi Uniti e Banca per i Regolamenti Internazionali un progetto di collaborazione denominato mBridge per promuovere l’utilizzo dello e-yuan nei pagamenti transfrontalieri. Non è forse un caso se lo scorso 8 marzo il presidente Biden ha emanato un ordine esecutivo per promuovere la sperimentazione di un dollaro digitale, nello sforzo tardivo di guadagnare il terreno perduto. Ancor più significativamente, la quota dello yuan nelle transazioni internazionali mediate dal sistema SWIFT è raddoppiata in due anni da gennaio 2020 ed è aumentata del 10,85% in un solo mese da dicembre 2021 a gennaio 2022. Ed era ancora prima dell’invasione dell’Ucraina e dell’adozione delle sanzioni.

La maggiore prova di forza, però, la valuta cinese l’ha data proprio con lo scoppio della crisi ucraina, mostrando una straordinaria stabilità rispetto al dollaro, mentre altre valute, compreso l’euro, si sono svalutate. In effetti, dall’inizio della crisi il tasso di cambio tra dollaro e yuan sia rimasto sostanzialmente invariato, mentre l’euro si è deprezzato di quasi il 5% in una settimana (Figura 1). Questo è dovuto principalmente a due fattori. Il primo è la prossimità territoriale al conflitto e quindi al timore, seppur minimo, che possa estendersi. Il secondo consiste in una dinamica di flight to quality in scala ridotta. È possibile che questo fenomeno aumenti di intensità con il prolungarsi del conflitto. In ogni caso, è sintomo del fatto che lo yuan viene percepito sempre più, anche in casi di estrema incertezza, come un rifugio affidabile. 

 

Fig. 1 Dal giorno dell’invasione l’euro cede, lo yuan tiene

(tassi di cambio euro-dollaro e yuan-dollaro, numero indice 24/02/2022 = 1)

Fonte: elaborazione degli autori su dati Banca d’Italia

 

Ma veniamo al fattore più comunemente menzionato come ostacolo all’internazionalizzazione dello yuan: la chiusura della Cina ai movimenti di capitali e, quindi, l’assenza di un mercato libero, aperto, profondo – in una parola, liquido – di attività finanziarie denominate in yuan, sarebbe il principale impedimento alla sua adozione come moneta globale. Del tutto specularmente, come ha ribadito ancora recentemente la Segretaria al Tesoro americana, Janet Yellen, la solidità del dollaro come strumento di riserva sarebbe assicurata dalla liquidità dei mercati finanziari internazionali denominati in dollari. In sostanza, il dollaro sarebbe solido perché è liquido. Così si dice, senza batter ciglio.

 

Le basi di questo argomento si stanno, però, indebolendo. Di norma, le banche centrali sono inclini a detenere attività denominate in dollari perché fruttano un interesse e possono essere prontamente convertite in contanti. E preferiscono i contanti in dollari, rispetto ad altre valute, perché possono essere altrettanto prontamente spesi e convertiti in merci sui mercati di tutto il mondo. Le circostanze attuali mettono in discussione entrambi i presupposti. Tassi d’interesse ridotti, e perfino negativi, rendono poco conveniente detenere attività in dollari. D’altro canto, la pronta spendibilità di dollari per acquistare beni è messa in discussione dalla quota decrescente dei dollari nel commercio internazionale e oggi ancor più radicalmente dalle sanzioni che hanno mostrato di poterne impedire l’utilizzo persino a una banca centrale. Lo yuan non sarà forse mai liquido nel senso in cui lo è il dollaro, ma potrebbe essere liquido in un senso diverso e, in ultima istanza, più significativo: non convertibile in asset, ma convertibile in beni, in particolare in materie prime.

 

Pechino in sostegno di Mosca?

Come riferisce l’Economist, Zoltan Pozsar, investment strategist del Credit Suisse, ha ipotizzato che, in conseguenza delle sanzioni che hanno colpito da un lato le riserve valutarie della Banca centrale russa e dall’altro le esportazioni energetiche dalla Russia, la Banca centrale cinese potrebbe essere tentata di vendere parte dei suoi titoli di stato americani per acquistare a basso prezzo gas e petrolio russo, convertendo di fatto le riserve valutarie in riserve energetiche. L’ipotesi non è peregrina se si considera che già nel 2009 il governatore della Banca popolare cinese aveva proposto l’emissione di una moneta internazionale coperta da riserve in materie prime, ispirandosi esplicitamente al progetto elaborato da John Maynard Keynes per conto del governo inglese alla fine della Seconda guerra mondiale. L’incremento dei prezzi dei metalli preziosi, dei prodotti energetici e delle altre materie prime, già innescato dalla ripresa economica post-pandemica e ora acuito dallo scoppio del conflitto, potrebbe costituire un ulteriore incentivo a procedere nella direzione di sostituire le commodities alle valute come strumenti di riserva.

Del resto, ciò che è oggi comunemente indicato come il punto di forza della moneta americana, ossia l’elevata liquidità dei mercati finanziari denominati in dollari, è soltanto l’altra faccia della debolezza dell’economia americana, ossia un debito estero senza precedenti, accumulato in oltre quarant’anni di deficit della bilancia dei pagamenti. Come ha ricordato in una recente intervista Benjamin Cohen, uno dei maggiori esperti del sistema monetario internazionale, gli Stati Uniti sono il maggiore Paese debitore della storia.

 

Dalle sanzioni un sistema monetario più frammentato

D’altro canto, non bisognerebbe dimenticare che, quando il dollaro è diventato moneta internazionale nel Secondo dopoguerra, nemmeno gli Stati Uniti avevano adottato quel regime di libertà dei movimenti di capitali che oggi considerano un requisito indispensabile per chiunque voglia sfidare la loro egemonia. Infatti, alla conferenza di Bretton Woods, su proposta unanime di Stati Uniti e Regno Unito, si era convenuto di introdurre controlli sui capitali per arginare la speculazione, ossia per “scacciare gli usurai dal tempio della finanza internazionale”, secondo la colorita espressione usata del Segretario al Tesoro americano, Henry Morgenthau Jr.

Le sanzioni, concepite come una scomunica della Russia da parte della comunità finanziaria internazionale, rischiano in realtà di creare fratture non trascurabili nel sistema monetario e finanziario globale. Come sottolinea lo stesso Council on Foreign Relations, la Russia non è così isolata come le sanzioni vorrebbero. Questo vale soprattutto in Asia, dove perfino un grande alleato degli USA come l’India si è allineato alla Cina, astenendosi dal condannare l’invasione russa in Ucraina e dall’imporre sanzioni. E non si tratta di un partner trascurabile per la Russia, soprattutto per la vendita di armi che rappresentano quasi il 25% delle esportazioni di armi dalla Russia e addirittura il 50% delle importazioni di armi in India. È significativo che il commercio fra i due Paesi si sia affrancato in misura crescente dall’uso del dollaro: fra 2014 e 2019 gli scambi regolati in rupie o in rubli sono quintuplicati, passando dal 6% al 30% del commercio bilaterale fra i due Paesi. Con l’imposizione delle sanzioni alla Russia, secondo fonti vicine al governo e alla comunità finanziaria, l’India avrebbe immediatamente cercato di ammortizzarne gli effetti aprendo un canale di pagamento denominato in rupie, in particolare per assicurare le forniture di fertilizzanti russi che sono vitali per l’agricoltura indiana e per il sostentamento della sua popolazione.

 

Verso una nuova Bretton Woods?

Già prima della crisi, l’utilizzo del dollaro per i pagamenti delle esportazioni russe verso i cosiddetti BRICS era crollato dal 95% del 2013 a meno del 10% nel 2020. Ora, le sanzioni potrebbero indurre porzioni significative dell’economia globale a ridimensionare ulteriormente l’utilizzo del dollaro come strumento di regolamento e di riserva. Se è vero che non esiste un’alternativa bell’e pronta a sostituire il dollaro come moneta globale, è altrettanto vero che le sanzioni costituiscono per molti Paesi un forte incentivo a cercarla. Lo yuan è un buon candidato. Non è detto che debba sostituire il dollaro in tutte le sue funzioni. Il dollaro potrebbe specializzarsi come valuta elettiva nei circuiti finanziari e lo yuan in quelli commerciali. Non è una prospettiva incoraggiante per il sistema produttivo occidentale.

Non è nemmeno detto che nel ruolo di moneta globale dobbiamo rassegnarci ad assistere all’avvicendarsi di monete nazionali. Potrebbe essere arrivato finalmente il momento di una nuova Bretton Woods, per adottare una moneta internazionale degna di questo nome, distinta da ogni moneta nazionale, magari basata proprio sul valore delle materie prime.

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economia sanzioni Geoeconomia Crisi Russia Ucraina
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AUTORI

Luca Fantacci
UNIMI e Bocconi
Lucio Gobbi
Università di Trento

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