“Economia di resistenza”: così l’Iran si prepara a nuove sanzioni | ISPI
Salta al contenuto principale

Form di ricerca

  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED

  • login
  • EN
  • IT
Home
  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED
  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
    • DataLab
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri su invito
    • Conferenze di scenario
    • Formazione ad hoc
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI

  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
    • DataLab
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri su invito
    • Conferenze di scenario
    • Formazione ad hoc
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI
Iran Watch - Focus

“Economia di resistenza”: così l’Iran si prepara a nuove sanzioni

Annalisa Perteghella
19 luglio 2018

Il 7 agosto rientrerà in vigore la prima delle due tranches di sanzioni Usa destinate a essere reintrodotte a seguito della decisione di Washington di abbandonare l’accordo sul nucleare. In che modo l’Iran si sta preparando alla nuova stretta economica e finanziaria?

La strategia che il governo iraniano sta preparando per resistere alla tempesta in arrivo da Washington sembra essere basata sul tentativo di schermare la propria economia dagli effetti delle sanzioni almeno fino al termine del mandato di Trump. È il ritorno al concetto di “economia di resistenza”, introdotto dall’ayatollah Khamenei nel 2012 in risposta alle sanzioni occidentali. Secondo questo concetto, il Paese dovrebbe puntare sulle proprie capacità domestiche per resistere alla pressione esterna: produrre internamente anziché importare, introdurre sistemi di scambio in beni anziché in moneta, tornare a fare affidamento sulle triangolazioni commerciali attraverso Paesi terzi per ovviare all’isolamento finanziario. 

In pratica, si tratta di un ritorno al 2012, l’anno precedente l’avvio dei negoziati che avrebbero portato nel novembre 2013 alla firma dell’accordo ad interim sul nucleare e nel luglio 2015 a quella definitiva del JCPOA. Nel 2012 l’economia iraniana, messa alle strette dalle sanzioni Usa e Onu e - a partire dal luglio di quell’anno - dall’embargo Ue sul petrolio, perse circa 2 punti percentuali di Pil, mentre le esportazioni di petrolio si abbassarono di circa 1 milione di barili al giorno. A metà 2013 gli indicatori economici erano gravemente peggiorati: il rial svalutato di circa il 70% e il tasso di disoccupazione salito al 14%, in un contesto segnato dall’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità. 

Oggi però esistono profonde differenze rispetto al 2012. In primis, gli Usa sono oggi da soli nella loro missione punitiva verso Teheran: con l’Unione europea che solo a malincuore si adeguerà alle richieste Usa mentre cercherà di tenere aperti tutti i canali economici e commerciali possibili con l’Iran, e con nessuna sanzione Onu in vigore, l’unità del fronte occidentale e con essa la capacità di pressione sono seriamente compromesse. Certo, gli Usa in quanto ancora egemoni del sistema economico e finanziario internazionale sono in grado di dettare legge e disincentivare in questo modo il commercio con l’Iran, ma a Teheran sembra esserci una certa consapevolezza del fatto che gli altri paesi, in primis l’Ue, stanno cercando di dotarsi di mezzi per aggirare il monopolio Usa, mentre altri paesi, come India, Cina e Russia, non sembrano intenzionati ad adeguarsi nemmeno in prima battuta. Esiste altresì la consapevolezza che gli indicatori economici sono destinati a peggiorare nell’immediato futuro - ne è testimone il deprezzamento del rial a cui stiamo assistendo già da qualche mese - ma nel complesso questo peggioramento avviene all’interno di un quadro macroeconomico che è più solido rispetto a quello del 2011-2012. Il tasso di disoccupazione è sceso oggi all’11%, in cassa ci sono riserve per 130 miliardi di dollari, 30 in più rispetto al 2012. 

Ma soprattutto, esiste oggi a Teheran una ritrovata unità di intenti all’interno della classe politica, storicamente segnata da fazionalismi e rivalità intra-partitiche. Messa di fronte alla minaccia di un “soft regime change” orchestrato dall’esterno - tramite l’aumento della pressione dal basso sul regime - la classe politica iraniana sembra ricompattarsi attorno alla figura del presidente, al fine ultimo di assicurare la sopravvivenza della Repubblica islamica. Tuttavia, Hassan Rouhani è un presidente sicuramente indebolito dalla prospettiva di un naufragio dell’accordo sul nucleare; è pertanto molto probabile che assisteremo nei prossimi mesi a uno spostamento dell’asse della politica iraniana verso le fazioni più conservatrici e vicine alla Guida Khamenei, le vere beneficiarie della politica di pressione di Trump. 

Se Trump, insomma, scommetteva sull’isolamento economico del regime come leva per l’aumento della pressione popolare e per la presa del potere da parte degli elementi ultra-radicali che avrebbero ancora una volta isolato diplomaticamente il paese, la scommessa sembra essere per ora fallita: le proteste popolari non sembrano al momento in grado di mettere davvero in difficoltà il regime, mentre al vertice assistiamo a un ricompattamento teso a convogliare all’esterno un’immagine di solidità e unione, mentre vengono mantenuti i canali di dialogo con Unione europea e con i partner già presenti nel periodo delle sanzioni (Cina, India, Russia in primis) e si continua ad agire all’interno delle istituzioni internazionali. È di pochi giorni fa, ad esempio, la notizia che il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif ha avviato un procedimento contro gli Usa - per comportamento sanzionatorio illegale - in sede di Corte Internazionale di Giustizia. 

Nel breve periodo dunque possiamo attenderci un peggioramento degli indicatori economici, la ripresa parziale della politica dei sussidi per porre freno alle proteste popolari, la diminuzione delle esportazioni petrolifere verso l’Ue (mentre continueranno quelle verso Oriente), ma anche il tentativo di rafforzare le esportazioni non petrolifere (in primis pistacchio, zafferano e plastica) e di trovare metodi alternativi per l’esportazione delle merci dal paese, soprattutto attraverso i porti di Pakistan, Oman, Qatar e il porto iracheno di Basra. Non sembrano invece più molto praticabili al momento le triangolazioni commerciali attraverso gli Emirati Arabi Uniti, il cui governo sembra intenzionato ad affiancare gli Usa nella politica di “massima pressione” su Teheran, mentre rimangono all’orizzonte quelle con la Turchia. All’orizzonte anche l’implementazione di scambi in beni - petrolio per merci - per ovviare all’isolamento finanziario. 

Attraverso queste misure di emergenza, che nel 2012 sono diventate la norma, l’Iran spera di sopravvivere per un tempo sufficiente al ritorno a Washington di un presidente dai più miti consigli, in grado di comprendere che la tattica della massima pressione economica per portare a un cambiamento politico raramente ha funzionato nella storia. A Teheran praticamente mai.

Contenuti correlati: 
Iran: il gigante in marcia tra Europa e Asia

Ti potrebbero interessare anche:

Afghanistan, One Year Later
Giuliano Battiston
Freelance Journalist and Researcher, Director of Lettera 22
,
Nicola Missaglia
ISPI Research Fellow
One Year After the Taliban Takeover, Afghanistan Is Adrift
Giuliano Battiston
Freelance Journalist and Researcher, Director of Lettera 22
China in Afghanistan: The Year of Moving Gradually
Raffaello Pantucci
RUSI
Who Opposes the Taliban? Old Politics, Resistance and the Looming Risk of Civil War
Fabrizio Foschini
Afghanistan Analysts Network
Afghanistan: Obstacles and Lines of Action for Diplomacy
Vittorio Sandalli
Ambassador of Italy to Afghanistan
From Insurgency to Ministries: Assessing the Taliban’s Year in Power
Antonio Giustozzi
King's College London

Tags

Iran Asia sviluppo Geoeconomia Hassan Rouhani
Versione stampabile

AUTORE

Annalisa Perteghella
Research Fellow - Iran Desk

SEGUICI E RICEVI LE NOSTRE NEWS

Iscriviti alla newsletter Scopri ISPI su Telegram

Chi siamo - Lavora con noi - Analisti - Contatti - Ufficio stampa - Privacy

ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) - Palazzo Clerici (Via Clerici 5 - 20121 Milano) - P.IVA IT02141980157