Economia e rifugiati: i costi oltre confine | ISPI
Salta al contenuto principale

Form di ricerca

  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED

  • login
  • EN
  • IT
Home
  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED
  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri ristretti
    • Conferenze di scenario
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI

  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri ristretti
    • Conferenze di scenario
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI
Commentary
Economia e rifugiati: i costi oltre confine
30 maggio 2013

I disastri di una guerra non si vedono mai soltanto nel campo di battaglia; il più delle volte sono destinati a espandersi, a interessare chi non è direttamente coinvolto e a protrarre i suoi molteplici effetti nel tempo.

La crisi siriana, lungi dall’affermarsi come un conflitto esclusivamente interno tra forze lealiste al regime di  Assad e forze ribelli, sta mostrando la vera natura della sua gravità anche oltre i confini nazionali, producendo spillover tali da renderla una vera e propria crisi regionale con effetti che intaccano non solo la sfera della sicurezza, ma anche quella economica, e che compromettono i già fragili equilibri sociali dei paesi limitrofi. 

Abdallah al-Dardari, vice primo ministro siriano attualmente membro della Commissione ONU per gli Affari Economici e Sociali dell’Asia Occidentale (ESCWA), ha recentemente reso noti alcuni dati sui costi della guerra in Siria e sulle devastanti ripercussioni economiche che essa produce nei paesi vicini, ex partner commerciali. Tralasciando le calamità più immediate, quali condizioni di povertà assoluta su vasta scala e altissimi livelli di disoccupazione, la spesa cui si andrebbe in contro per ricostruire il paese è pari a circa 70-80 miliardi di dollari, di cui 28 miliardi servirebbero per ricostruire 1,2 milioni di case dotate di infrastrutture. Per una tale opera edilizia servirebbero 30 milioni di tonnellate di cemento all'anno – più di tre volte la quantità di cui il paese necessitava prima dello scoppio del conflitto – per produrre le quali occorrono più di 1 miliardo di metri cubi di acqua, risorsa di cui notoriamente né la Siria né i territori circostanti dispongono in una tale quantità. 

Conseguenze indirette e meno ingenti, ma comunque preoccupanti, sono quelle che si riversano sui sistemi economici dei paesi limitrofi, con i quali la Siria si era prodigata negli anni antecedenti al conflitto a stringere accordi commerciali dal valore significativo per la bilancia dei pagamenti di ciascun contraente e dalla natura reciprocamente vincolante. 

La scomparsa sul tavolo di contrattazione del partner siriano si è rivelata una grave perdita soprattutto per Ankara la quale, perseguendo la strategia “zero problemi, massimo commercio”, aveva trovato in Damasco un importante acquirente di cibo, abbigliamento e materiale edile (per un valore totale pari a 1,8 miliardi di dollari nel 2010) e, soprattutto, un utilissimo gateway per i lucrosi mercati arabi del Golfo. Nel 2010 il 22% delle esportazioni turche è andato alla regione (il doppio rispetto al 2004), e la maggior parte di esso è transitata attraverso la Siria. La Turchia, con un ammontare di investimenti pari a 260 milioni di dollari, si stava inoltre affermando in Siria quale principale investitore del paese. Solo nel 2011 il commercio turco-siriano ha registrato un tracollo del 40%.

Il tracollo dell’economia siriana ha praticamente trascinato verso il basso anche l’economia libanese che, sempre secondo al-Dardari, per ogni punto percentuale di decrescita in Siria ha risentito di un calo pari allo 0,2% del suo PIL. L’inizio della guerra, unitamente all’incertezza prodotta sui mercati dall’instabile situazione politica interna, ha comportato un calo nei tassi di crescita annuali del PIL in Libano dal 7% del 2011 al corrente 2%. L’alluvione di manodopera a basso costo, formata da centinaia di migliaia di profughi e lavoratori giunti dalla Siria in un paese di appena 4 milioni di abitanti, potrebbe anche trascinare verso il basso gli stipendi medi, quale conseguenza dello sproporzionato aumento dell'offerta di lavoro.

Dinamiche analoghe interessano anche il vicino siriano meridionale, la Giordania, un paese scarso di risorse naturali che poggia le proprie basi economiche quasi esclusivamente sulle rimesse e sugli ingenti aiuti provenienti dai paesi del Golfo e dagli Stati Uniti. Quale unica fonte di ricchezza interna la Giordania può contare sul turismo ma l’instabile livello di sicurezza che caratterizza la regione mediorientale ormai da diversi anni – non solo per effetto della crisi siriana, ma per l’intera ondata di proteste che hanno interessato l’area con l’avvio della Primavera araba – ha però significativamente ridimensionato l’apporto che il settore può procurare all’economia del paese, lasciandone risentire in termini di occupazione. Col tracollo della Siria, la Giordania perde inoltre l’accesso al suo principale punto di scambio, il porto siriano di Latakia, dal quale giungevano beni che sarebbe troppo costoso importare attraverso il Mar Rosso. 

Al di là dei numeri e delle perdite economiche, un’altra crisi si sta consumando entro e oltre i confini siriani, una crisi dal volto umano che richiede un significativo impegno della comunità internazionale, sollecitata a mobilitarsi anche dall’opinione pubblica e dalla società civile. Stando agli ultimi dati delle agenzie ONU, un numero stimato a 6,8 milioni di siriani, pari a circa un terzo della popolazione, necessita assistenza umanitaria all’interno della Siria. In più di due anni di violenze e di conflitto, oltre 1,5 milioni di siriani vivono oggi la condizione di rifugiati negli stati vicini, dopo avere provato quella di sfollati nel proprio paese e spesso a più riprese, poiché fuggiti da un posto all’altro.

La Giordania ha aperto il suo confine a oltre 540.000 siriani dall’inizio del conflitto nel marzo 2011 – un numero rilevante se rapportato alla popolazione totale del paese, pari a poco più di 6 milioni di abitanti – e alcuni funzionari delle Nazioni Unite si aspettano che si superino gli 1,2 milioni entro la fine dell’anno. Amman ha presentato ricorso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per affrontare la crescente crisi umanitaria, facendo notare che fornire ospitalità alla comunità di rifugiati costerà alle esigue casse dello stato giordano un miliardo di dollari nel solo 2013. 

La convivenza con i siriani ha inoltre innescato nel paese preoccupanti sentimenti xenofobi. La Giordania soffre di un alto tasso di disoccupazione cronico, che riguarda circa il 13% della popolazione e il 30% dei giovani e la paura che i rifugiati siriani stiano sottraendo posti di lavoro ai giordani ed esaurendo le risorse nazionali ha persino spinto parlamentari e alti funzionari a chiedere al governo di chiudere le frontiere con la Siria. Le preoccupazioni circa la potenziale destabilizzazione che l’arrivo dei siriani può procurare nel paese riguardano sia il timore di una dispersione di cellule jihadiste nel paese sia  il ricorso della situazione verificatasi con la nascita d’Israele. I palestinesi approdati in centinaia di migliaia alla fine del 1940 e dopo la guerra del 1967 oggi compongono quasi la metà dei cittadini e questo dato viene avvertito dai giordani come una minaccia alla loro identità nazionale. 

In Libano, intanto, si teme che gli oltre 140.000 rifugiati, per lo più sunniti, possano avere un impatto sul fragile equilibrio di sicurezza esistente nel paese tra i gruppi cristiani, sciiti e sunniti, rafforzando di molto questi ultimi. La decennale storia gravosa dei campi palestinesi in Libano ha anche impedito la costituzione di nuovi campi profughi che sarebbero tanto necessari.

La risposta della Turchia alle ripercussioni della crisi in Siria è stata meglio organizzata che in Giordania, godendo di più risorse finanziarie in grado di far fronte ai quasi 100.000 profughi che hanno attraversato il confine settentrionale. Come in Giordania, anche qui i siriani sono autorizzati a prendere degli alloggi in affitto, anche se viene negato loro il diritto al lavoro. Nonostante la Turchia sia riuscita a sostenere le difficoltà economiche incontrate dalla Giordania, costi sociali e politici stanno comunque emergendo e gli autoctoni non mostrano simpatia per i rifugiati dai quali temono atti terroristici. 

Nonostante le suddette preoccupazioni e le ripercussioni che inevitabilmente si ripercuotono sul sistema economico e sociale, i vicini siriani stanno mostrando buona volontà nel mantenere aperti i propri confini (tranne quelli giordani per i palestinesi-siriani i quali non vengono ammessi nel paese per timore di un ulteriore squilibrio demografico tra palestinesi e giordani). Tale volontà è particolarmente degna di nota data la mancanza di un adeguato sostegno internazionale ai paesi ospitanti. Finora i più prodighi di aiuti finanziari sono stati i monarchi dei paesi del Golfo che, indirizzando le risorse di cui dispongono, cercano di muovere le sorti del conflitto siriano a proprio favore perseguendo interessi talvolta contrastanti tra loro stessi. 

La comunità internazionale che si riunirà il 7 giugno a Ginevra ha annunciato che è in corso la riesamina dei piani per le operazioni umanitarie in Siria e nei paesi vicini e che questi, unitamente al nuovo appello di fondi, saranno presentati nel corso della Conferenza. I risvolti che si trarranno da questa potrebbero essere decisivi non solo nel determinare l’assetto di un governo di transizione in Siria ma anche una linea d’azione per tutti gli attori statali e non, che sono direttamente o indirettamente coinvolti nel conflitto e convivono quotidianamente con gli effetti da esso prodotti. Si spera che le misure assunte nel contesto di un tavolo di concertazione internazionale possano essere dettate esclusivamente dal buon senso e dalle esigenze delle vittime della crisi piuttosto che dagli interessi parziali delle potenze della regione.

* Anna Pascale, ISPI Research Trainee
 
Vai al dossier: Siria: aspettando "Ginevra 2"

Ti potrebbero interessare anche:

Il raid USA in Siria
Missili e messaggi: lo strike Usa in Siria
Dietro il mito della rivoluzione green
Simone Urbani Grecchi
Head of International Strategic Analysis, Intesa Sanpaolo
Turchia: la pandemia e le altre crisi di Ankara
Valeria Talbot
ISPI
Più povera e più fragile: la Siria tra crisi economica e pandemia
Silvia Carenzi
Scuola Normale Superiore
,
Matteo Colombo
ISPI e ECFR
Il ritorno del protezionismo

Tags

Siria conflitto Turchia economia risorse economiche armamenti Al-Assad ginevra rifugiati Sciiti Sunniti onu jihad
Versione stampabile
Download PDF

SEGUICI E RICEVI LE NOSTRE NEWS

Iscriviti alla newsletter

Chi siamo - Lavora con noi - Analisti - Contatti - Ufficio stampa - Privacy

ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) - Palazzo Clerici (Via Clerici 5 - 20121 Milano) - P.IVA IT02141980157