L'autunno tra crescita e inflazione | ISPI
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Commentary

Economia globale: l'autunno caldo dell'inflazione

Antonio Villafranca
03 settembre 2021

La pandemia non è ancora finita, ma l’economia mondiale sembra essere sulla via della guarigione. I dati più recenti del Fondo Monetario Internazionale (FMI), diffusi a luglio, dipingono uno scenario positivo in buona parte del mondo, anche se non mancano differenze a livello regionale. A guidare la ripresa sono le economie asiatiche con un tasso di crescita atteso per il 2021 al 7,5%. Seguono gli Stati Uniti che sfondano il tetto del 7%. Più a rilento l’Europa che deve “accontentarsi” del 4,6%. Più indietro Asia Centrale e Africa Sub-Sahariana, dove l’economia paga il prezzo di una campagna vaccinale più lenta: secondo il FMI si fermeranno, rispettivamente, al 4% e al 3,4%.

I dati forniti dall’OCSE per il secondo trimestre dell’anno confermano il trend positivo del FMI, divergenze regionali incluse. Gli Stati Uniti – unico caso tra i paesi del G7 - si apprestano quindi a tornare a livelli di Pil pre-crisi. Altre economie mature dovranno invece attendere ancora, anche se merita di essere segnalato il forte rimbalzo del Regno Unito (+4,8% sul trimestre precedente) e dell’Italia (+2,7%), che si pone sopra la media dell’Eurozona (+2%). Molto più arretrato il Giappone che si ferma allo 0,3% su base trimestrale.

Un orizzonte economico tutto sommato sereno, su cui però si stagliano varie ombre, prima fra tutte l’inflazione. Tornerà davvero a farsi sentire? E come potrebbe incidere sulla corsa delle principali economie mondiali?

 

L’inflazione è tornata

L’inflazione è decisamente tornata ad alzare la testa negli Stati Uniti dove a luglio 2021 ha superato il 5% su base annua per il terzo mese consecutivo. Ma preoccupa anche nell’Eurozona dove l’Eurostat segnala ad agosto un aumento su base annua del 3%, in crescita rispetto al 2,2% di luglio e con una fiammata in particolare in Germania (+3,9% ad agosto).

Cosa sta causando il ritorno dell’inflazione? Tra le cause, ci sono anzitutto quelle “buone” legate alla crescita economica e all’aumento della domanda. Ma “buone” non vuol dire necessariamente “normali”: a far da traino sono le ingentissime politiche fiscali (e monetarie) espansive a Washington come a Bruxelles, con il risvolto della medaglia rappresentato dall’impennata del debito pubblico. Il ritorno alla crescita sta contribuendo a un vero e proprio boom dei prezzi delle materie prime. L’indice Bloomberg Commodities Spot (che misura i prezzi di 22 materie prime) a fine giugno 2021 segnava un +78% rispetto a marzo 2020. Al riguardo, anche la (giusta) spinta verso la transizione verde e digitale inizia a far sentire il proprio peso, complice l’aumento della domanda di rame, conduttore essenziale, e di litio, imprescindibile per la realizzazione di batterie (incluse quelle delle auto elettriche). Puntano in su anche i costi dei noli e delle spedizioni marittime, in molti casi più che triplicati rispetto all’anno precedente.

Tra le cause non proprio “buone” del ritorno dell’inflazione, c’è invece l’aumento dei prezzi dell’energia. Giusto per avere un’idea della sua rilevanza, il 3% di inflazione nell’Eurozona si fermerebbe a un più modesto 1,7% se scorporassimo la componente energetica. A pesare è soprattutto il prezzo del petrolio tornato sopra i 70 dollari al barile dopo il crollo dell’anno scorso e la riduzione dell’offerta da parte dei Paesi esportatori.

Si tratta di una fiammata dei prezzi destinata a rimanere? I segnali sono contrastanti. Per quanto riguarda i prezzi delle materie prime, il trend sembra destinato a perdurare nei prossimi mesi stante una domanda ancora sostenuta. Lo stesso dicasi per i costi di noli e trasporti visto che la ripresa coinvolge fortemente i settori che contano su trasporti marittimi (a differenza dei servizi ancora in difficoltà), con quelli aerei e ferroviari peraltro già quasi al limite della capienza. Diversa invece la situazione legata ai prezzi delle risorse energetiche, per cui sembra profilarsi un aumento dell’offerta da parte dei Paesi produttori (secondo quanto deciso recentemente dai Paesi OPEC+) che potrebbe favorire una riduzione dei prezzi.

L’andamento prossimo venturo dell’inflazione è dunque ancora incerto e fortemente legato al vigore della ripresa delle attività economiche. Tutto ciò va inoltre inscritto nei trend di medio-lungo periodo – dall’esito della guerra commerciale USA-Cina, all’accorciamento delle catene del valore fino al dispiegamento degli effetti della transizione digitale e verde – che aggiungono ulteriori elementi di incertezza.

 

Banche centrali sempre più colombe?

Rispetto a una inflazione che ha rialzato la testa, come si stanno comportando le banche centrali? Tra i falchi e le colombe al momento sembrano prevalere le seconde. Ma con dei distinguo. A fare il volo più lungo da colomba è stata la FED americana che già dall’anno scorso ha adottato un target di inflazione flessibile. In pratica è disposta ad accettare un’inflazione ben al di sopra della media (e di non procedere quindi a innalzare i tassi di interesse o a ridurre repentinamente il piano di acquisto dei titoli) pur di preservare la ripresa. Anche la BCE ha spiccato il volo, che però assomiglia di più a un “volo di ricognizione”. Per la prima volta dal 2003, a luglio ha rivisto la propria strategia – ancorata a un’inflazione vicina ma al di sotto del 2% - adottando un obiettivo “flessibile”. Questo non vuol dire aver abbandonato l’obiettivo del 2%, ma accettare variazioni in modo simmetrico, ovvero sopportando (lievi) variazioni sia sotto che (come è adesso) sopra la media. La BCE non si spinge quindi in là come fa la Fed, ma si allontana un po’ dalle tradizionali e rigorose posizioni dei falchi (a partire da quelli della Bundesbank).

A una lettura veloce, si potrebbe quindi pensare che le banche centrali non siano disposte a sacrificare la crescita sull’altare dell’inflazione. O, detto in altri termini, che per i prossimi mesi non dovremo aspettarci aumenti dei tassi di interesse (che metterebbero un freno all’economia) pur in presenza di una inflazione sostenuta. In realtà, l’inflazione continua a preoccupare eccome le banche centrali, ma altri elementi consigliano di evitare una stretta monetaria. Anzitutto, va ricordato che sono le stesse banche centrali a contribuire a tenere bassi i tassi grazie ai loro enormi piani di acquisto dei titoli. Il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEEP) della BCE vale 1,85 trilioni di euro e, dallo scorso marzo, si traduce in acquisti a un ritmo di 80 miliardi al mese. Probabilmente nei prossimi mesi gli acquisti si ridurranno (puntando verso i 40 miliardi al mese) ma rimarranno comunque significativi.

Va poi ricordato quanto detto sopra: non è del tutto chiaro se le spinte inflazionistiche permarranno nei prossimi mesi, e se rimarranno ai livelli di oggi. Ma ciò che probabilmente più di tutto consiglia prudenza riguarda le prospettive di una crisi finanziaria. Un aumento dei tassi di interessi e/o l’uscita repentina dai programmi straordinari di acquisti dei titoli potrebbe generare una o più crisi finanziarie in giro per il mondo, stante l’enorme aumento dei debiti (pubblici e privati) dopo la pandemia. Prudenza che quindi continuerà a tradursi in politiche monetarie espansive, seppur con una graduale riduzione delle misure sinora prese (che rischiano di risultare insostenibili in una prospettiva di medio-lungo termine).

Ovviamente tutto quanto scritto finora vale rebus sic stantibus. Se c’è qualcosa che la pandemia ha insegnato agli economisti è che le previsioni in queste circostanze possono essere errate. Ed errate di molto. Improvvise riprese dei contagi potrebbero ribaltare nuovamente la situazione da ogni punto di vista. Sia per la politica monetaria che per quella fiscale, navigare a vista sembra ancora l’opzione migliore. Ma senza dimenticare che – se si esagera – la medicina rischia di essere peggiore della malattia.

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AUTORI

Antonio Villafranca
Direttore Ricerca ISPI

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