Di fronte alla gravità della crisi economica e sociale in Venezuela viene spontaneo chiedersi: Ma come è possibile che in Venezuela, che era uno dei paesi più ricchi dell’America latina, manchino beni di prima necessità come il cibo e le medicine? Ma come è possibile che il Venezuela, che è stato tra i più grandi esportatori di petrolio e che si stima possegga le più vaste riserve di petrolio al mondo, abbia quasi dimezzato il prodotto interno negli ultimi quattro anni? Anche se la ricerca delle responsabilità di questa tragedia potrebbe risalire ad alcuni decenni fa, gli errori che sono stati compiuti nel corso degli ultimi dieci anni sono sufficienti per spiegare la situazione attuale.
Hugo Chávez, che ha governato il paese fino alla sua morte nel 2013, ha avuto la grave responsabilità di non aver sfruttato la fase del prezzo alto del petrolio per creare nel paese le condizioni per uno sviluppo sostenibile e duraturo, ma anzi di aver creato le precondizioni per il disastro del paese dopo il 2014 con il crollo del prezzo del petrolio. Il presidente Nicolás Maduro ha portato avanti una politica economica seguendo prevalentemente la stessa impostazione data da Chávez, anche dopo il collasso delle entrate tratte dalla risorsa petrolifera, contribuendo in modo determinante al peggioramento della situazione economica.
Fino al 2014, quando il prezzo del petrolio aveva un prezzo decisamente considerevole, il Venezuela riceveva molte risorse dalle esportazioni, ma Chávez non solo non accantonò parte dei proventi derivati da esse per far fronte a periodi di possibile riduzione del costo del petrolio, ma anzi sfruttò il momento favorevole per prendere a prestito ulteriori fondi sui mercati dei capitali internazionali. La maggior parte delle risorse però fu spesa in programmi sociali, molto poco fu invece destinato a investimenti produttivi nel settore petrolifero come anche nel resto dell’economia, che sarebbero stati al contrario in grado di aiutare il paese a superare la crisi e a ripagare i debiti. Non solo non vennero fatti investimenti pubblici, ma anche gli investimenti privati erano scoraggiati da un contesto molto difficile per l’attività imprenditoriale. Le imprese private, sia nazionali sia estere, infatti, erano giustamente preoccupate dall’instabilità normativa, dall’elevata corruzione e dalla politica industriale basata su nazionalizzazioni ed espropri. Nella classifica della Banca Mondiale sul “Ease of Doing Business” già nel 2013 il Venezuela era agli ultimi posti nel mondo e nella classifica del 2018 su 190 paesi, solo l’Eritrea e la Somalia sono considerati paesi dove è più difficile fare attività imprenditoriale.
La mancanza di investimenti ha progressivamente ridotto anche la produzione di petrolio, trend ulteriormente aggravatosi nell’ultimo anno: nel 2017 la produzione è diminuita del 28% e la quota venezuelana della produzione totale OPEC è scesa al 6%, rispetto a una media del 10% tra il 1980 e il 2014. Inoltre, disincentivando gli investimenti privati, non è stato possibile diversificare l’attività produttiva in settori come quello manifatturiero e agricolo, che avrebbe aiutato a contrastare gli effetti negativi della caduta del prezzo del petrolio.
A metà del 2014 un barile di petrolio venezuelano da circa 100 dollari è arrivato a costarne 40 e gli effetti sul paese sudamericano sono stati molto pesanti: crollo dei proventi delle esportazioni, delle riserve ufficiali e delle entrate fiscali. Nonostante il crollo delle entrate fiscali petrolifere, Maduro ha mantenuto elevata la spesa pubblica, che ha finanziato facendo stampare nuova moneta alla banca centrale. Anche gli studenti di un corso di macroeconomia per principianti sanno che la monetizzazione del disavanzo pubblico crea inflazione, che può velocemente diventare iperinflazione come nel caso del Venezuela: secondo le ultime stime del Fondo Monetario Internazionale l’inflazione nel 2017 ha superato il 2400% e arriverà a circa il 13.000% nel 2018 (FMI, World Economic Outlook Update, January 2018).
Il crollo delle esportazioni e delle riserve ufficiali ha costretto il paese a ridurre fortemente le importazioni, con l’effetto conseguente, data anche la scarsità della produzione domestica, dell’insufficiente disponibilità di beni alimentari di prima necessità. Anche se da anni non vengono pubblicati dati ufficiali, fonti diverse riportano numerosi casi di malnutrizione, specialmente infantile, di carenze dei servizi sanitari di base per la mancanza di medici, emigrati all’estero, e di medicinali.
La gravità della situazione economica viene riassunta dall’andamento della produzione aggregata: secondo il FMI, il prodotto interno lordo del Venezuela, che dal 2014 ha tassi di crescita negativi, nel 2018 dovrebbe contrarsi del -15%, dopo due altrettanto forti cadute del -16,5% nel 2016 e del -14% nel 2017.
La politica economica di Chávez e quella di Maduro sono state sempre molto interventiste e poco trasparenti; inoltre, da anni mancano dati ufficiali sui principali indicatori macroeconomici. Sia Chávez sia il suo successore alla presidenza hanno preso decisioni di politica economica come se ritenessero di poter determinare per decreto l’andamento dell’economia, ad esempio del tasso di inflazione e del tasso di cambio. Quando l’inflazione era elevata, la colpa veniva attribuita all’avidità dei produttori e rivenditori e quindi la soluzione consisteva nel decidere per legge controlli sui prezzi, che inevitabilmente portavano a distorsioni e diminuzione della produzione. Se il tasso di cambio era troppo volatile, in difetto risultava essere sempre qualche paese straniero o speculatore internazionale e la soluzione era quella di adottare un regime di tassi di cambio fissi, anzi una molteplicità di tassi di cambio a seconda dell’utilizzo che si doveva fare della valuta estera. Proprio il mercato dei cambi è emblematico delle distorsioni create nell’economia. In una situazione di elevata inflazione e crisi economica, un regime di tassi di cambio fissi crea aspettative di svalutazione e alimenta il mercato nero della valuta estera. La differenza tra i tassi ufficiali e il mercato nero era in Venezuela diventata enorme, creando opportunità di guadagni illeciti per esponenti vicini al governo, che potevano comprare dollari al tasso di cambio ufficiale fissato per le importazioni di beni essenziali e poi rivendere i dollari sul mercato nero. Alla fine di gennaio 2018 esistevano due tassi di cambio ufficiali, anche se in realtà le transazioni sono state pochissime per la mancanza di dollari: il DIPRO, usato per le importazioni di cibo e medicine, con il tasso fissato a 10 bolivares per 1 dollaro americano e il DICOM, venduto su base d’asta, con una quotazione di 3336 bolivares per 1 dollaro americano. Nello stesso periodo sul mercato nero ci volevano 235.782 bolivares per acquistare 1 dollaro. Dal 31 gennaio 2018 Maduro ha deciso di abolire il DIPRO e di utilizzare solo il DICOM, che si è svalutato fino a 25.000, ancora però molto lontano dal mercato nero (236.854 bolivares per 1 dollaro il 10 febbraio 2018, fonte dollartoday.com).
La crisi economica e sociale, insieme al processo di abbandono della democrazia costituzionale e di accentramento del potere, hanno spinto quattro milioni di venezuelani a lasciare il paese, indebolendo purtroppo le possibilità di una decisiva mobilitazione dei cittadini contro il presidente Maduro, che ha trascinato il paese nel baratro.