Come misurare il polso a un’economia travolta da una tempesta che non solo non accenna a smettere, ma si fa sempre più violenta e appare senza fine? Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, gli economisti si sono precipitati ad analizzare l’impatto delle ritorsioni con cui l’Occidente ha risposto: sanzioni finanziarie e commerciali senza precedenti, al pari della sfida lanciata da Vladimir Putin in quella terribile mattina del 24 febbraio.
Presto ci si è resi conto – con il disappunto dei fautori delle sanzioni e il sollievo del Cremlino – che l’economia russa stava reagendo meglio del previsto, grazie alla messa in sicurezza del sistema finanziario approntata dalla Banca centrale di Elvira Nabiullina e alla fase di rialzo in cui si trovavano i prezzi delle materie prime, in grado di compensare le perdite per il budget federale anche dove le esportazioni verso l’Europa iniziavano a calare. In effetti, nelle scorse settimane il Fondo monetario internazionale ha ridimensionato a un -3,4% la recessione prevista per la Russia nel 2022, rispetto al -8% ipotizzato in aprile. Ma anche Bank Rossii limita a un -3/3,5% una caduta immaginata all’inizio della guerra al -15%.
Chi aveva immaginato un crollo nel giro di pochi mesi, inoltre, veniva smentito dal fatto che un’economia strutturata come quella russa, abituata ad adattarsi alle difficoltà, non si può “spegnere” all’improvviso: le sanzioni impiegano mesi e anni per intaccare la capacità di resistenza di un Paese. Lo scenario più probabile sembrava quello di un graduale rallentamento, con i diversi settori produttivi più o meno penalizzati dalla dipendenza da componenti e tecnologie occidentali non più disponibili; o importate per vie traverse, più lunghe e più costose.
In questo quadro, il sostegno di Paesi “amici” come Cina o Turchia si è rivelato meno entusiasta di quanto sperassero le autorità russe: ciascuno di loro sta cercando di ricavare dalla situazione il meglio per sé – in particolare sconti sugli acquisti di petrolio o altre materie prime - alla ricerca di un equilibrio tra i vantaggi offerti da un mercato disertato dalla concorrenza occidentale e la preoccupazione di non incorrere nelle sanzioni extraterritoriali degli Stati Uniti, Paese e mercato da cui nessuno può prescindere. Il grande interrogativo dei prossimi mesi e anni – considerando anche l’entrata in vigore dell’embargo europeo sul petrolio russo, a pieno regime dal prossimo febbraio - sarà determinare quanto era cruciale negli anni scorsi l’apporto occidentale alla crescita russa; quanto di questa sarà possibile affidare alla produzione locale, quanto contribuiranno gli alleati rimasti. Quanto, in sintesi, la Russia impiegherà per tornare ai livelli pre-guerra, quanto pagherà in termini di arretratezza rispetto al resto del mondo per questo isolamento. Un esperimento, come dicevamo all’inizio, inedito.
Un muro di incertezza
Ma la guerra non è finita. L’infezione non si è arrestata. Ora anche queste considerazioni rischiano di essere spazzate via dagli eventi. Con il prolungarsi del conflitto il peggioramento degli indicatori – a partire dall’inflazione - viene trasferito al 2023, al di là di un muro di incertezza. Se in questi mesi gli economisti non potevano comunque basarsi su uno scenario stabile, ora emerge drammatica la consapevolezza che Putin intende prolungare indefinitamente una guerra d’attrito. Non ha alcuna intenzione di cercare compromessi e minaccia anzi di allargare il conflitto. Così le ultime previsioni macroeconomiche potrebbero rivelarsi troppo ottimistiche.
Il primo elemento che complica ulteriormente le cose per l’economia, confermando che per Putin tutto ciò che conta è proseguire la guerra a ogni costo, è la mobilitazione parziale dichiarata in Russia il 21 settembre scorso e terminata, almeno sulla carta, il 31 ottobre. Un passo che avrà conseguenze, avverte la Banca centrale: ma ormai per il presidente russo le implicazioni per la sua popolarità e le conseguenze per l’economia, sacrificata completamente all’”operazione militare speciale”, sono secondarie. Putin si gioca tutto trascinandosi dietro il Paese: anche in questo caso gli economisti offrono risultati diversi mentre calcolano quanto inciderà su crescita, domanda e prezzi la partenza per il fronte di decine di migliaia di professionisti e di consumatori che le rispettive aziende faticheranno a sostituire. In aggiunta agli specialisti fuggiti all’estero per non essere mobilitati, e a chi si nasconde. Posti di lavoro perduti, catene produttive scardinate. «La mobilitazione – scrive l’economista Vladislav Inozemtsev, secondo cui il danno potrebbe arrivare anche a dieci punti percentuali del Pil – è un’ulteriore dimostrazione che Putin può distruggere l’economia russa meglio di ogni sanzione».
Economia e legge marziale
Ma un secondo segnale, altrettanto preoccupante, estende di fatto la mobilitazione all’intero Stato, all’economia e alla società, puntando a metterli in condizione di continuare la guerra a lungo. Con un “ukaz” (decreto) del 21 ottobre scorso seguito alla proclamazione della legge marziale nelle regioni occupate dell’Ucraina, Putin ha ordinato al premier Mikhail Mishustin di prendere la guida di un “Comitato di coordinamento” incaricato di assistere il complesso militar-industriale, con ampi poteri: nella produzione e manutenzione degli armamenti, delle tecnologie, dei relativi servizi medici, ingegneristici, edili. Il budget federale (che ora mantiene segrete diverse voci) garantirà – fino a quando? - le risorse necessarie; il Comitato definirà fornitori, intermediari e realizzatori delle infrastrutture militari necessarie. Con l’autorità di coinvolgere anche le diverse regioni e il business privato, piccole imprese incluse.
Oltre a Mishustin, del Comitato di coordinamento fanno parte diversi ministri (in ambito economico e della difesa) ma anche il responsabile dei servizi di sicurezza FSB, Aleksandr Bortnikov, e Viktor Zolotov, capo della Guardia nazionale. A dimostrazione dell’importanza che Putin attribuisce al nuovo organismo, chi ne fa parte verrà ritenuto personalmente responsabile per i propri impegni: garantendo la propria presenza alle riunioni, senza possibilità di delega a un vice. Lo stesso Mishustin riferirà a Putin su base quotidiana. Il primo compito del governo non è più adottare misure a sostegno dei settori più penalizzati, aiutandoli a sopravvivere e a riprendersi, ma sostenere lo sforzo bellico, dedicandogli le risorse migliori.
Dai tempi dell’annessione della Crimea alla Federazione Russa, nel marzo 2014, la politica economica del Cremlino è stata dominata dall’imperativo di costruire una fortezza finanziaria in grado di difendersi dai previsti assalti delle sanzioni: con riserve sufficienti a mantenere stabile il rublo e sicuri i conti, riducendo il più possibile la dipendenza dal dollaro e dagli investimenti esteri. Una politica criticata per via delle risorse sottratte alla spesa sociale, e allo sviluppo del Paese e dei settori economici in grado di essere motore dell’economia. Ora il Cremlino va oltre: la Fortezza Russia non lo è più in senso figurato. E il Comitato di coordinamento, che è stato accostato al Consiglio straordinario per la difesa istituito da Stalin il 30 giugno 1941, presiede – ora ufficialmente - a un’economia di guerra.