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Commentary

Egitto: la stabilità al caro prezzo della repressione

30 aprile 2014

La sentenza di condanna a morte in primo grado per 683 simpatizzanti della Fratellanza musulmana, emessa lunedì scorso dalla corte di giustizia di Minya, è l’ultimo episodio della repressione in atto contro i vincitori delle prime elezioni nella storia dell’Egitto post-Mubarak. Nello stesso giorno, al Cairo, è stato messo fuorilegge il Movimento 6 Aprile, che per primo era sceso in piazza contro l’ex rais nella rivoluzione del 2011. Solo il mese scorso, altri 529 militanti e simpatizzanti della Fratellanza erano stati condannati a morte in primo grado: di questi, 37 si sono visti confermare la sentenza in appello, per gli altri c’è stata una commutazione in ergastolo. 

Gli avvocati difensori dei militanti condannati a Minya hanno fatto immediatamente ricorso, protestando veementemente contro quella che molti analisti hanno considerato una sentenza politica, a riprova dell’appoggio dell’apparato giuridico al governo sostenuto dai militari. Come riportato dal Financial Times, il processo è durato pochi minuti, senza che alcuna prova né testimone venisse presentato contro gli imputati, accusati dell’omicidio di un poliziotto nel corso degli scontri dell’agosto scorso. 

La forza con cui l’apparato giuridico e i militari sono intervenuti contro i membri della Fratellanza musulmana e del movimento 6 Aprile, ricorda sempre di più una vera e propria vendetta dell’establishment contro coloro che tre anni fa avevano rovesciato l’élite che governava il paese. All’intervento militare dell’estate scorsa, di fatto un vero e proprio putsch attuato dalle forze armate (seppur sostenuto da folle oceaniche e da attori politici, religiosi e istituzionali di primo piano), è seguita infatti una persecuzione giuridica dei membri, degli affiliati, e anche solo dei simpatizzanti dei Fratelli musulmani. Gli arresti si sono via via estesi poi a giornalisti e movimenti laici, e agli oppositori del “nuovo ordine”, tutto ciò mentre il capo di stato maggiore delle forze armate, il generale Abdel Fattah al-Sisi, si dimetteva dalla carica, “scendendo in campo” e candidandosi a una pressoché certa vittoria elettorale alle elezioni presidenziali, previste il 26-27 maggio prossimi.  

La repressione delle opposizioni non è nuova in Egitto, ma la violenza con cui l’apparato di sicurezza si sta muovendo nel soffocare il dissenso è sicuramente di un’intensità preoccupante, che da decenni non si vedeva nel paese, e che supera significativamente i livelli della stagione pre-rivoluzionaria di Mubarak. Come riporta sempre il Financial Times, in un‘interessante analisi sulla repressione in Egitto, alle 42 carceri ufficiali egiziane, si affianca una rete di prigioni segrete, difficilmente rintracciabili, prive di registro, dove gli oppositori letteralmente “spariscono” dalla circolazione. Raramente questi “prigionieri fantasma” sono rilasciati dopo settimane, o mesi; in molti casi i familiari perdono letteralmente le loro tracce. Esperti e organizzazioni non governative stimano a circa 20.000 gli oppositori incarcerati in questo tipo di strutture, il cui numero ammonterebbe a trenta campi speciali, ai quali si uniscono una dozzina di basi militari. Le carceri segrete sono la conseguenza di una legge risalente al 1956, voluta da Gamal Abdel Nasser per autorizzare il presidente e il ministro degli Interni a istituire “prigioni speciali” per decreto. In queste prigioni si è radicalizzato il pensiero di due diverse generazioni di islamisti: la prima, quella dell’ideologo Sayyd Qutb, imprigionato dal 1954 al 1966 proprio da Nasser; e la seconda generazione, quella di Ayman al-Zawahiri, che trent’ anni dopo, rivisitando l’ideologia di Qutb e rilanciandola su scala globale, contribuì con Osama bin Laden a dar vita al network di al-Qaida. Come in passato, nel medio ma anche nel breve termine, le violenze e le torture che ci sono testimoniate da coloro (pochi) che sono riusciti a emergere dalle carceri segrete, potrebbero formare una nuova generazione di islamisti radicali: scoraggiati dal fallimento della via politica “democratica”, duramente repressi e perseguitati, queste migliaia di persone potrebbero scegliere facilmente di ricorrere alla lotta armata e al terrorismo per affermare le proprie idee.  

Alla repressione violenta del dissenso, l’establishment ha affiancato una crescente attività legislativa ad hoc, atta a favorire l’elezione di al-Sisi alla presidenza. L’8 marzo scorso, il presidente ad interim Adly Mansour, che presiede anche la Corte suprema costituzionale, ha impedito per decreto di ricorrere in appello contro il risultato legislativo delle prossime elezioni di maggio, di fatto violando l’articolo 97 della nuova Costituzione. 

L’ex generale al-Sisi ha finora dimostrato una grande capacità comunicativa e un carisma assolutamente fuori dal comune, che ne fanno il candidato ideale a impersonare il desiderio di stabilità degli egiziani, stremati da oltre tre anni di lotte intestine e violenze perpetrate da ogni parte politica. Vi sono però alcuni segnali che indicano chiaramente come l’Egitto di oggi, nonostante l’evidente sostegno popolare all’esercito e al suo candidato, resti un paese profondamente diviso. 

Come riportato da Baseera, un’agenzia di sondaggi d’opinione indipendente, gli ultimi mesi hanno evidenziato un sensibile calo nelle intenzioni di voto a favore di al-Sisi: dal 51% del febbraio scorso, al 39% di marzo. La vittoria di Abdel Fattah Al-Sisi alle prossime elezioni presidenziali resta comunque un fatto scontato, se non altro perché non appaiono all’orizzonte competitor in grado d’impensierire l’ex capo di stato maggiore delle forze armate. Sempre secondo Baseera, meno dell’1% di coloro che si dichiarano contrari ad al-Sisi intende votare per un altro candidato. Tuttavia l’alta percentuale di astenuti, e il sostegno ancora significativo di cui gode la Fratellanza musulmana (secondo alcune stime attorno al 20% degli aventi diritto di voto, nonostante sia stata messa fuori legge), sono chiari segnali dell’apatia, se non aperta ostilità, di una parte consistente del paese nei confronti dell’establishment, dell’esercito e dello stesso al-Sisi. 

In questo senso il referendum sulla nuova carta costituzionale può offrire un’anticipazione del voto presidenziale: in un clima di forte intimidazione politica nei confronti del fronte del «no», il 98% dei votanti si era espresso per la ratifica della nuova Costituzione, ma l’affluenza alle urne era stata del 39%. Tra il 3 e il 26 gennaio scorso avevano perso la vita 85 civili, 120 erano rimasti feriti; a ciò erano seguiti più di 500 arresti e «violazioni significative dei diritti umani», come riportato da Amnesty International in un rapporto del 23 gennaio. Nel Sinai un elicottero militare era stato abbattuto con un missile terra-aria dal gruppo islamista Ansar Beit al-Maqdis, uccidendo quattro militari, che si uniscono ai più di 300 caduti delle forze di sicurezza dal luglio 2013 (dati International Crisis Group). 

Dal punto di vista regionale, il nuovo governo dei militari sembra aver recuperato i rapporti chiave con l’Arabia Saudita, il Kuwait, e gli Emirati Arabi Uniti: i tre paesi hanno promesso un piano congiunto di aiuti pari a 13,9 miliardi di dollari, e un ulteriore pacchetto di 5,8 miliardi è previsto da Arabia Saudita ed Emirati Arabi. Al contrario, sono sensibilmente peggiorate le relazioni con la Turchia, al minimo storico, e con il Qatar, per ovvie ragioni. Rilevante è poi l’avvicinamento alla Russia di Putin, nel quadro di un rinnovato interesse di Mosca nei confronti del Medio Oriente: è in discussione un accordo di 2 miliardi di dollari per forniture di armi russe all’Egitto. 

La reazione degli stati occidentali al nuovo corso post-Morsi sembra piuttosto tiepida: ai richiami al rispetto dei diritti umani lo scorso gennaio, in occasione del referendum, sono seguiti pochi fatti concreti. In un certo senso sembra che Stati Uniti e Unione Europea convergano essenzialmente con il governo militare egiziano, e con l’apparato burocratico-industriale che lo sostiene, nel dare priorità a un’agenda di progressiva stabilizzazione economica sul processo di riconciliazione nazionale, più strettamente politico.

Così facendo si rischia di perdere di vista come i due fattori siano intrinsecamente legati. Una delle principali ragioni del fallimento del governo Morsi fu proprio il non comprendere quanto la ricerca dell’unità nazionale fosse necessaria al fragile Egitto post-rivoluzionario. Il rincorrere una famigerata “stabilità economica” con un paese profondamente diviso, come sembra essere l’Egitto di oggi, rischia di diventare un’impresa impossibile. Nel momento in cui quest’obiettivo dovesse fallire, si esaurirebbe anche il consenso di cui al-Sisi sembra ancora godere in molti settori della popolazione: nell’assenza di un’opposizione moderata islamista, o liberale, e con una radicalizzazione crescente dell’elettorato, lo scenario di lungo periodo per l’Egitto potrebbe rivelarsi al contrario estremamente instabile. 

Davide Tramballi, ISPI Research Assistant, Programma Mediterraneo e Medio Oriente

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