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Commentary

Egitto: matrimonio d'interesse con Riyadh

29 giugno 2015

È ancora presto per tracciare un bilancio storiografico credibile e un’analisi teorica seria delle cosiddette “primavere arabe”. Ma certamente, quando lo si farà, uno dei temi centrali da trattare sarà quello dei rapporti tra le rivolte del 2010-2012 e il contesto internazionale. Un’anticipazione possibile di questo percorso critico può essere fatta relativamente all’Egitto, riducendo a sintesi quattro fattori apparentemente slegati: la durissima repressione scatenata da al-Sisi contro i Fratelli musulmani dopo il colpo di stato del 3 luglio 2013; la descrizione da parte di al-Sisi di se stesso come di un redivivo Nasser; il bombardamento egiziano sulla Libia del 15 febbraio 2015; l’alleanza dell’Egitto con l’Arabia Saudita per combattere gli houthi in Yemen e, più in generale, il pericolo sciita.

Il colpo di stato del 3 luglio 2013 ha “rettificato” la (presunta) rivoluzione egiziana riportando al potere i militari e cancellando dalla scena i Fratelli musulmani, che di quella rivoluzione avevano inteso approfittare. Il generale al-Sisi, regista dell’operazione, si è consolidato al potere presentandosi come erede di Nasser, martellatore dell’islam politico ma anche difensore accanito del nazionalismo egiziano e promotore dell’egemonia egiziana nel mondo arabo. Ma al-Sisi non aveva da combattere Israele e l’imperialismo statunitense, come Nasser, ma un ben più subdolo nemico, lo Stato Islamico (IS), che si ramificava nel Vicino Oriente e in Libia. Il bombardamento di Benghasi del febbraio 2015 rispondeva al fine di proteggere l’Egitto dalla minaccia jihadista. Più che naturale appariva allora la convergenza con l’Arabia Saudita, convergenza che vieppiù si rinsaldava nella prospettiva di contenere la minaccia dell’espansionismo sciita nella penisola araba e nel Golfo e di stabilizzare una regione prossima al collasso, visti i troppi focolai d’instabilità, dalla Libia allo Yemen, dalla Siria all’Iraq.

Questa la sintesi dei fatti secondo una prospettiva interpretativa ragionevole. Cosa ci insegna però questo percorso? In tutti i sensi ci mostra un Egitto debole, un al-Sisi incerto, un quadro regionale instabile in cui il ruolo dell’Egitto sembra essere marginale. La violenta repressione dei Fratelli musulmani – cui consegue l’ascesa dei ben più pericolosi salafiti, la cui lealtà al regime potrebbe essere di pura facciata – disegna un Egitto all’interno tutt’altro che solido, tutt’altro che pacificato e in ripresa. Con alle spalle un paese debole, al-Sisi mostra i muscoli sul piano regionale, lanciando a IS il messaggio di essere pronto a colpire dovunque sia necessario (la deflagrazione della Libia minaccia la sicurezza egiziana) e stringendo con i sauditi un patto che, unendo le due maggiori potenze sunnite della regione, sembra promettere stabilità. Ma dei due attori il vero protagonista in primo piano è l’Arabia Saudita e l’Egitto sembra subordinato alla strategia di Riyadh. L’Arabia Saudita contende all’Iran l’egemonia sul mondo islamico mediorientale, ma l’Egitto come s'inserisce in questa “guerra fredda”? Nasser non aveva contraltari sciiti da neutralizzare per affermare la preminenza egiziana sul mondo arabo e sul Medio Oriente tutto. La preminenza egiziana sul mondo arabo e sul Medio Oriente tutto ai tempi di Nasser non obbediva a input pseudo-religiosi (consolidare contro lo sciismo la preminenza sunnita). L’Egitto  si trova invece, vaso di coccio, a viaggiare in mezzo ai due vasi di ferro dell’Iran sciita e dell’Arabia Saudita sunnita col rischio di venire stritolato.

La politica saudita è stata per molti decenni ambigua e avventuristica: l’Arabia Saudita per molti decenni ha, più o meno nascostamente, finanziato organizzazioni sunnite estremiste, dai talebani ad al-Nusra. Può darsi che la nuova dirigenza abbia cambiato strategia, ma se l’Egitto si appiattisce sulle scelte saudite rischia di essere nulla più che una pedina nel gioco del potente (e infido) alleato. È difficile dire come al-Sisi possa smarcarsi e recuperare un vero ruolo di prestigio per l’Egitto in Medio Oriente. La possibilità che l’Egitto dia un contributo effettivo al contenimento o alla sconfitta di IS in Siria e in Iraq (o in Libia) sembra remota. La Siria è lontana e ben più vicini al baratro siriano sono Israele e soprattutto la Turchia, le cui mire egemoniche sono ben note. Al-Sisi dovrebbe elaborare una visione di più ampio respiro, facendo valere il peso economico, militare, culturale che in potenza indubbiamente l’Egitto ancora possiede. Dovrebbe coltivare una politica davvero autonoma che valuti quali siano le vere priorità dell’Egitto. Forse il vero nemico non sta a Teheran, ma… a Riyadh.

Massimo Campanini, Docente di Storia dei paesi islamici all’Università degli Studi di Trento. 

 

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Egitto al-Sisi Medio Oriente Arabia Saudita Iran instabilità IS terrorismo jihad
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