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Di nuovo in piazza
Egitto: perché si protesta contro al-Sisi
Alessia Melcangi
30 settembre 2019

Dal suo volontario esilio spagnolo aveva lanciato l’appello per radunare un milione di persone in protesta, “the million man march”, Muhammad ‘Ali, l’imprenditore e uomo d’affari che nelle settimane passate ha sfidato il regime del presidente Abdel Fattah al-Sisi denunciando la corruzione del quale si macchierebbe l’establishment di potere egiziano. Tuttavia quella di questo venerdì è stata una manifestazione esigua, molto inferiore rispetto alla prima esplosa venerdì 20 settembre, in maniera del tutto inaspettata e improvvisa. Nei fatti, sulle teste delle centinaia che hanno sfidato i controlli del regime di al-Sisi pesa il numero di quasi 2mila arresti (secondo le stime delle organizzazioni egiziane per i diritti umani) effettuati dalla polizia egiziana dallo scoppio delle prime rivolte. E le principali città – il Cairo, Suez, Port Said, Alessandria – sembrano come asserragliate, presidiate militarmente da posti di blocco e camionette della polizia che impediscono fisicamente l’accesso alle zone del centro. 

Il regime del generale al-Sisi, salito al potere nel 2013 dopo la deposizione di Muhammad Morsi, ha sviluppato un forte sistema di controllo poliziesco che dovrebbe garantire la solidità del regime politico egiziano. Quando venerdì 20 settembre diverse centinaia di egiziani sono scesi nelle piazze, per la prima volta si è sentito richiedere pubblicamente le dimissioni del presidente: i video diffusi su internet da Muhammad ‘Ali – che per anni ha lavorato a stretto contatto con l’establishment militare – accusando il rais e la cerchia dell’esercito a lui stretta di sprecare fondi pubblici in investimenti di lusso e in traffici illeciti, sono riusciti a toccare un nervo scoperto del regime. Tanto che la reazione è stata durissima: oltre al blocco dei social network e di oltre 500 siti web, in pochi giorni è stata avviata la più grande campagna di arresti dal 2013 che ha colpito giornalisti, dirigenti di partiti islamisti e di opposizione, docenti universitari e attivisti per la difesa dei diritti umani, con l’accusa di diffondere notizie false e di collusione con le organizzazioni terroristiche. Sicuramente le manifestazioni hanno provocato un certo imbarazzo internazionale giacché il presidente egiziano si trovava negli Stati Uniti per partecipare all’Assemblea Generale dell’ONU; tuttavia l’endorsement pubblico ottenuto dal presidente americano Donald Trump ha permesso ad al-Sisi di ritornare al Cairo e di rassicurare i suoi sostenitori radunatisi nei diversi quartieri del Cairo. 

Come sottolineato da diversi esperti, nel proporre un’analisi di questi avvenimenti, si rischia di incorrere in una lettura o troppo emotiva o influenzata dai ricordi non lontani del 2011: ma l’Egitto di oggi è un paese diverso. Alcuni dati, però, sono ineludibili e emergono con forza permettendone una possibile interpretazione.

Le manifestazioni delle ultime settimane hanno lanciato un chiaro messaggio di protesta dettato da una situazione economica solo a tratti in ripresa. Mentre gli indicatori macroeconomici sembrano evidenziare un aumento della crescita economica (consolidata crescita del PIL al 5,5%, relativa diminuzione dell’inflazione vicina all’11,3% annuo e diminuzione della disoccupazione secondo le recenti stime ufficiali della Banca mondiale[1]), sostenuta dal prestito concesso dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e dal credito dell’Arabia Saudita e in grado di sostenere a lungo termine il regime, nei fatti il 32,5% della popolazione vive al di sotto del livello di povertà[2] e le prospettive di ripresa economica sembrano ancora lontane dal ristabilire una reale perequazione sociale.

Le politiche di austerity lanciate negli anni precedenti dal governo, infatti, portando al taglio dei sussidi e al drammatico aumento del costo della vita, hanno colpito soprattutto le fasce più disagiate della popolazione, che rappresentano la maggioranza, le quali non beneficiano ancora dell’attuale generale miglioramento economico. In tale contesto le accuse di corruzione rivolte alla cerchia dei militari e al presidente arrivano come un detonatore, spingendo giovani esasperati a protestare pubblicamente. Coloro che hanno deciso di prendere parte alle manifestazioni hanno subito sulla propria pelle la crisi economica del 2012 e protestano sia per la mancanza di prospettive, sia per il peso delle condizioni di vita: non vi scorgono invece né una precisa agenda politica né appare realistico immaginare un coordinamento preventivo sistematico. Del resto, la Fratellanza Musulmana, bandita nel 2013, sopravvive in una condizione di frammentazione e di clandestinità, mentre la maggior parte dei rappresentanti dell’opposizione e dei movimenti di sinistra si trovano agli arresti domiciliari, in carcere o sotto stretto controllo. È necessario ricordare inoltre come la rivolta del 2011, che fu sì in grado di porre fine al governo trentennale di Hosni Mubarak, arrivò al culmine di un lungo periodo di mobilitazione sociale e politico dei sindacati e delle organizzazioni promosse dalla società civile. 

Risulta difficile dunque ipotizzare che tali proteste possano minare la stabilità del regime, tanto più che ancora una volta a fare da ago della bilancia sono i militari. L’esercito, che rappresenta il 50% dell’economia statale e che detiene oltre al potere economico anche quello politico grazie agli emendamenti costituzionali approvati ad aprile, potrebbe davvero ribaltare l'equilibrio. Ma al momento, questo non sembra uno scenario probabile. Certamente esiste qualche malumore all’interno del regime, in particolare le critiche manifestate più volte da ex figure di spicco come Ahmad Shafiq, ultimo primo ministro della presidenza Mubarak, e Sami Anan, capo dello stato maggiore delle forze armate dal 2005 fino al 2012, bloccati entrambi nella loro corsa alle presidenziali. Tuttavia tale presunta divisione all'interno dell'esercito non sembrerebbe essere in grado di favorire un vero e proprio regime change. Tanto più che i posti chiave del potere, come il servizio di intelligence e la magistratura, sono adesso sotto il controllo diretto di al-Sisi e dei suoi fedelissimi, mentre gli stessi vertici militari sono legati al potere da molteplici interessi economici. Soprattutto, in una condizione di ripresa economica precaria, è credibile che l’esercito voglia evitare il ritorno delle proteste sociali e del caos politico. 

Probabilmente chi protesta spera in una forte presa di posizione da parte della comunità internazionale. Finora, tuttavia, le critiche sono arrivate dalle Nazioni Unite e dai membri del Congresso degli Stati Uniti che hanno pubblicamente biasimato il sostegno espresso da Trump, mentre dall’Europa non arrivano reazioni significative. Eppure ci si dovrebbe ricordare che l’Egitto, considerato uno dei principali argini all’espansione del fondamentalismo islamico e necessario per il mantenimento della stabilità regionale, si trova accanto all’Europa e soprattutto accanto alla Libia, piagata oggi dalla guerra civile e da un pericoloso esodo migratorio. Ma forse il motivo principale del nostro silenzio risiede proprio in questo elemento: ancora una volta, la prudenza delle diplomazie internazionali si spiega con l’importanza geopolitica di questo paese e con le amare delusioni seguite alle speranze di cambiamento nate con le rivolte del 2011. E con la paura che una nuova stagione di incertezza destabilizzi una regione squassata da troppi anni di guerre civili, proxy wars, anarchia e instabilità.

 

[1] World Bank Group, From Floating to Thriving: Taking Egypt’s Exports to New Levels, Egypt Economic Monitor, luglio 2019, p. 16.

[2] CAPMAS, Income & Expenditure Search Bulletin Date, luglio 2019.

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Egitto MENA al-Sisi
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AUTORI

Alessia Melcangi
Università di Roma "La Sapienza"

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