“Come voleva la prassi”. Non è soltanto il titolo di un episodio del famoso Ispettore Montalbano. Questa frase rappresenta meglio di tante altre parole quanto accaduto in Egitto in questi giorni elettorali. Tre giorni di votazioni in attesa soltanto di poter ufficializzare quanto già si sapeva: Abdel Fattah al-Sisi è stato confermato a larga maggioranza presidente d’Egitto. In attesa dei dati ufficiali che verranno divulgati dalla Commissione elettorale nazionale il prossimo 2 aprile (i numeri che girano su internet e sui vari social parlano di un 90-95% in favore del presidente uscente contro il 3% dello sfidante, con un’affluenza vicina al 40%), proviamo a fare un breve punto sul valore di questo voto e sulle sfide che aspettano il paese nel prossimo mandato di al-Sisi.
Ragionando sui dati non ufficiali e su quanto è stato scritto e detto, emergono innanzitutto due evidenze: il primo riguardante la popolazione votante, mentre il secondo è relativo all’affluenza. Sul primo aspetto quasi tutti gli osservatori, indipendenti o filo-governativi, hanno sottolineato come questo voto abbia visto una partecipazione forte, o meglio nella norma, di una fetta di popolazione anziana, mentre è stata pressoché assente l’adesione del mondo giovanile che in fin dei conti aveva caratterizzato Tahrir nel 2011 e nel 2013, finanche nel 2014, ossia nelle elezioni presidenziali che avevano visto l’affermazione di al-Sisi. Questo dato è rilevante perché sottolinea quanta disaffezione vi sia da parte dei giovani sia verso la politica nel suo complesso, sia verso il regime in particolare, sempre più percepito come un baluardo invalicabile verso il cambiamento. A pesare sicuramente su tali prospettive vi sono diversi aspetti legati in primis alla feroce repressione contro i movimenti giovanili, le organizzazioni non governative, i mondi sociali di ispirazione più o meno liberali e le componenti studentesche vicini agli ambienti universitari, questi ultimi in particolar modo veri serbatoi di idee – talvolta anche radicali – all’interno del variegato contesto politico egiziano. L’assenza della componente giovanile rappresenta un pesante vulnus di legittimità e autorevolezza per la stessa vittoria di al-Sisi, poiché il presidente con la sua campagna elettorale, e più in generale con una propaganda e una retorica dai tratti nazional-populisti, non è stato mai in grado di intercettare e comprendere le esigenze e le aspettative tradite di una porzione non solo numericamente rilevante (i giovani sotto i 25 anni in Egitto sono pari al 52% della popolazione totale), ma anche in costante fuga dal paese e alla ricerca di nuove opportunità all’estero, tra Europa e Medio Oriente (secondo uno studio del 2013 condotto dall’agenzia di statistica nazionale Capmas, tra gli emigrati dal paese verso l’estero, circa il 70% di questi sarebbero under 30).
Un aspetto, questo, che ci porta alla seconda parte del nostro ragionamento, ossia quello relativo all’affluenza, autentico scoglio che il regime parrebbe non essere stato in grado di aggirare nonostante gli incentivi molteplici promessi nei confronti di chi si fosse recato al voto. Fin dal primo dei tre giorni di votazioni, nelle zone periferiche delle grandi città si è assistito ad un via vai continuo di pullman che accompagnavano ai seggi, e in taluni casi davano indicazioni precise di voto, le persone anziane, spesso incapaci di recarsi da sole, e diversi soggetti attratti dall’opportunità di ricevere donazioni in denaro o in cibo (ogni elettore avrebbe ottenuto 50 pound – poco più di 2 euro – o derrate alimentari, come riso, zucchero e pane) in cambio dell’esercizio di voto. Sebbene le autorità abbiamo smentito questo atteggiamento definito “corruttivo” è innegabile però che le stesse abbiano poi fatto pressioni sugli elettori per recarsi alle urne minacciandoli in caso di non voto con 500 pound di multa (25€ e pari a circa un decimo di un salario medio egiziano), come previsto dalla legge elettorale approvata nel 2014. Il tentativo di invogliare gli elettori era stato giustificato dalla chiamata al boicottaggio da parte dei partiti e delle sigle afferenti al mondo della Fratellanza musulmana e alle opposizioni liberali o di sinistra, che in assenza di spazi pubblici e privati per esprimere il proprio dissenso contro il regime hanno chiesto alla popolazione di non andare a votare, intendendo questo strumento come l’unico plausibile per delegittimare al-Sisi agli occhi degli egiziani. La scarsa affluenza del 2014, pari a meno del 47% degli aventi diritto al voto secondo i dati ufficiali (meno del 30% secondo gli osservatori internazionali), non ha infatti permesso ad al-Sisi di godere pienamente della vittoria elettorale del 2014. Analogamente oggi, un risultato simile al 2014 sarebbe percepito dal regime stesso come un ulteriore segnale della disaffezione serpeggiante tra ampie fasce della popolazione.
Così tra violenza, disincanto e, soprattutto, senza reali alternative all’attuale corso politico, oltre 21 milioni di elettori hanno riconfermato al-Sisi ai vertici di Heliopolis, sperando che i sacrifici fatti finora possano essere ricompensati con un cambio di passo negli anni a venire. Tuttavia, nonostante l’esito scontato del voto, il paese sarà ancora una volta chiamato a confrontarsi con le sfide strutturali e non più ignorabili nel breve e medio periodo: crescita economica e riforme sociali, lotta al terrorismo e, soprattutto, la necessità di dare finalmente spazio a un processo di democratizzazione inclusivo e tangibile.
La sfida principale riguarderà il piano economico, poiché le scelte politiche che ne deriveranno potranno definire anche gli effetti a cascata sugli altri comparti del contesto egiziano. Lo scenario economico vive una condizione di quasi paralisi, nonostante alcuni miglioramenti dovuti agli effetti delle prime riforme introdotte dal governo dopo aver avuto accesso ai 12 miliardi di dollari di aiuti internazionali del Fondo monetario internazionale concessi all’Egitto nel novembre 2016. I finanziamenti hanno permesso al governo di risalire leggermente la china, con la contestuale eliminazione di alcuni sprechi come i sussidi statali, che pesavano su circa il 10 per cento del Pil. A ogni modo il risparmio sui conti pubblici è gravato direttamente sulle spalle della popolazione, anche e soprattutto della classe media, attraverso l’aumento dell’inflazione e la svalutazione della moneta locale. L’Egitto continua a essere esposto alla possibilità di default finanziario e al rischio di una nuova ondata di proteste sociali. In assenza di incisive e radicali riforme economiche è a repentaglio la stessa ricerca di stabilità dell’Egitto post-rivoluzionario. Al-Sisi continua a propugnare vecchie ricette fatte di intervento statale nell’economia, grandi opere e piccole aperture al sistema liberista internazionale. Il tutto senza prendere in considerazione uno dei problemi principali che drogano l’economia egiziana, ossia la pervasiva presenza dei militari: secondo stime ufficiose di report internazionali, le imprese che si richiamano alla proprietà militare dovrebbero contare tra il 20% e 40% del Pil nazionale, con una capacità di garantire lavoro pari al 65% della popolazione totale.
Anche alla luce di ciò, deve preoccupare il grado di pericolosità che i problemi economici riflettono inevitabilmente anche sulla tenuta sociale del paese, alimentando rabbia, frustrazione e malcontento, in un clima di crescente tensione sociale e di scontro politico, che rischia di favorire una nuova escalation di violenze anche a sfondo terroristico. In un contesto del genere possiamo aspettarci che il regime prosegua la sua campagna di repressione nei confronti dei dissidenti, mentre le forze armate proseguiranno nella militarizzazione delle istituzioni e del sistema economico egiziano. Ed è su questo aspetto che al-Sisi affronta la sua più grande sfida. Infatti, se l’esecutivo non dovesse riuscire nel suo intento di garantire una robusta ripresa economica, il mix di più fattori di instabilità a vario livello (aumento del costo della vita, incremento della repressione sociale e peggioramento del quadro di sicurezza) potrebbe acuire il malcontento popolare nei confronti di al-Sisi, ponendo le basi per un secondo mandato molto più complesso da gestire rispetto a quello appena chiuso.
Toccherà ora ad al-Sisi promuovere il cambiamento, rispondendo efficacemente alle molteplici esigenze del paese. Il tempo e il modo in cui verranno affrontate ci diranno se le sfide del post-voto sono state l’ennesima opportunità persa per l’intero paese.