Il fallimento dell’esperienza politica di Morsi affonda le proprie radici in una serie di fattori, difficilmente sottoponibili a qualche forma di gerarchia.
L’islamizzazione è fenomeno che attiene più alla sfera sociale di parte del paese che alla legislazione vera e propria (l’art 2. della Costituzione egiziana, che indica la sharia come fonte principale del diritto, è esattamente identico a quella della Costituzione mubarakiana).
La paura di un’erosione del consenso “verso destra”, e quindi la frequente subalternità culturale nei confronti dei salafiti, l’autoreferenzialità nelle decisioni fondamentali per il futuro del paese, lo scontro con la magistratura, l’unilateralità nella redazione del testo costituzionale (approvato a colpi di maggioranza dalla Commissione costituente) e un’inconcludente politica economica sono i tratti caratterizzanti della disfatta politica di Morsi. L’idea di “Stato civile islamico” non è decollata, la congiuntura economica ha impedito qualunque forma di politica di welfare, che pure è sempre stato uno degli elementi di forza di questo movimento.
Da parte sua, l’eterogenea galassia dell’opposizione politica ai Fratelli musulmani, ha commesso innumerevoli errori. È divisa al proprio interno, e non potrebbe essere altrimenti, considerando che è caratterizzata da profili politico-culturali radicalmente diversi: dal tycoon copto liberale Naguib Sawiris ai nasseriani, dai socialisti guidati da Sabbahi agli islamici moderati fuoriusciti dalla Fratellanza, dai movimenti giovanili di Piazza Tahrir ai partiti di sinistra socialdemocratica e comunista.
Anche il più circoscritto fronte “progressista” (partiti di sinistra e movimenti di piazza), non è stato in grado di esprimere una leadership autorevole e unitaria, né prima né dopo le elezioni parlamentari e presidenziali (al contrario di quanto avvenuto, per esempio, in Tunisia, con la figura carismatica del leader sindacale Chokri Belaid).
Ma, soprattutto, il principale elemento di debolezza di tutto il panorama dei partiti laici egiziani è stato l’incapacità di ritagliarsi un ruolo politico autonomo all’interno del paese, limitandosi, in sostanza, a fare da “sparring partner” ai soggetti di volta in volta accusati, spesso a giusta ragione, di autoritarismo: i militari prima, i Fratelli musulmani poi.
Che si sia trattato, a seconda delle circostanze, dell’esercito, dello stesso Morsi, o della magistratura (quest’ultima fortemente sollecitata nell’ultimo anno), i movimenti e i partiti laici e progressisti hanno sempre nascosto dietro un altro soggetto politico-istituzionale, la propria incapacità di parlare profondamente alla maggioranza del popolo egiziano.
Gli straordinari numeri di partecipazione di questi giorni, e un clima di maggiore collaborazione tra le parti fanno ben sperare. La partecipazione, in particolare, è stata impressionante, con numeri probabilmente superiori alla prima rivoluzione del febbraio 2011. Pare, dunque, che siano maturi i tempi per una proficua sinergia tra la classe politica del fronte progressista e la piazza, rappresentata in questo momento dal movimento “Tamarod”.
Discutibile invece, proprio in virtù di questa ritrovata autorevolezza politica, la scelta di coinvolgere attivamente, nella battaglia politica, le istituzioni del paese, polizia, esercito e magistratura.
La carta, probabilmente giocata in maniera tardiva dall’ormai ex presidente, non ha prodotto alcun risultato. Il leader islamico aveva promesso un governo di unità nazionale, da costruire con le opposizioni, riforma della Costituzione e nuove elezioni parlamentari. L’unica, rilevante, condizione che poneva era il mantenimento delle prerogative presidenziali, legittimate dall’elezione di 12 mesi fa. Ma non c’è stato nulla da fare.
Morsi ha pagato la condizione di totale isolamento politico, nel quale si era relegato, sempre più, con il passare dei mesi. Con l’occupazione della tv di stato da parte dei militari e l’arresto di Morsi, il colpo di stato, come promesso, è avvenuto.
Il presidente della Corte Costituzionale Adly Mansour ha giurato come presidente ad interim. Figura autorevole, il suo nome è la sintesi perfetta del compromesso tra le diverse anime che hanno deposto il leader islamico: militari, corte suprema, Fronte di salvezza nazionale, rappresentato in questo momento dall’abilissimo stratega El-Baradei, movimento Tamarod e, sul fronte religioso, Ahmed al-Tayeb, imam dell’Univesità di Al-Azhar, punto di riferimento culturale dell’islam sunnita, e il papa copto Tawadros II.
La conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, che Morsi ha pagato, in maniera prioritaria, il maldestro tentativo di piazzare in tutte i gangli della vita politica, istituzionale e religiosa del paese, esponenti della Fratellanza.
A chiudere il cerchio, la probabile designazione di El-Baradei alla guida del governo di unità nazionale che traghetterà il paese alle elezioni.
Il discorso di Mansour ha aperto ai Fratelli Musulmani, descrivendoli come parte integrante del Paese. Sullo stesso tenore si è espresso El-Baradei.
Per il momento, tuttavia, i fatti parlano di un Morsi in stato di arresto, così come Khairat El-Shater, numero due della Fratellanza, e di 300 mandati d’arresto nei confronti di altrettanti esponenti politici del partito islamico.
Il primo atto del nuovo presidente è stato lo scioglimento del Consiglio della Shura (la Camera alta del Parlamento, l’altra era stata già sciolta), altra istituzione eletta democraticamente dagli egiziani meno di due anni fa. I Fratelli musulmani hanno iniziato a chiamare a raccolta quel pezzo di società egiziana che ancora si riconosce nel movimento islamico. Com’era immaginabile, gli scontri tra pro-Morsi e oppositori si sono intensificati, con i tank dell’esercito a fare da cuscinetto. Il paese è ai limiti della guerra civile.
È proprio questo primo, provvisorio, esito della nuova ondata rivoluzionaria egiziana, il frutto principale, di un retaggio politico-culturale secolare, il paradigma di un paese le cui diverse anime sono ancora alla ricerca di una compiuta identità.
La fragile Repubblica d’Egitto ha conosciuto il consenso e la rappresentatività popolare delle proprie istituzioni democratiche, per poi comprendere che si tratta di elementi necessari ma non sufficienti per qualificare uno stato come autenticamente democratico (Morsi ha dato effettivamente l’impressione di aver interpretato il ruolo del proprio movimento nel sistema istituzionale egiziano come una “tirannia della maggioranza”).
La piazza sembra essersi dimenticata dei 12 mesi di repressione e di frequente violenza che hanno caratterizzato il regime dei militari, prima dell’elezione di Morsi, e crede genuinamente nella loro buona fede.
Il ruolo determinante avuto dall’esercito nella destituzione di Morsi, inoltre, probabilmente posticiperà sine die, il tema di una lobby di burocrazia militar-economica, che pesa, anche e soprattutto da un punto di vista economico (è sufficiente comparare lo stipendio di un militare con quello di un qualunque lavoratore dipendente), in un modo insostenibile per un Paese ormai allo stremo.
Al contrario di quanto si avverte in queste primissime fasi, prima di sprofondare nel baratro, la Repubblica d’Egitto ha bisogno, quanto prima, di militari nelle caserme e di un confronto, sul terreno politico-culturale, in grado di aprire una stagione di condivisione delle regole fondamentali della propria convivenza.
Allo stato attuale, tutto questo sembra molto lontano.