Le elezioni britanniche del 6 maggio, in attesa di conoscere il vincitore, hanno già uno sconfitto. Ci riferiamo al sistema elettorale maggioritario secco, quel first past the post che da sempre garantisce stabilità ai governi inglesi conferendo potere assoluto a un partito, non necessariamente a quello che ottiene la maggior percentuale di voti.
Una regola, questa, già contestata sommessamente da frange di laburisti e di (pochissimi) conservatori e che è stata messa in crisi dall’improvvisa comparsa del liberaldemocratico Nick Clegg nella campagna elettorale di queste settimane. Analizzare le percentuali di voti attribuite dagli istituti di statistica ai tre partiti in lizza su base nazionale e declinarle con il numero di seggi assegnati, è stato esercizio utilissimo per rendere evidente a tutti l’iniquità di un meccanismo di voto che non è più rappresentativo della volontà popolare. Non solo un paio di punti di differenza può bastare per assegnare i seggi in misura sproporzionata, ma le più complesse alchimie dei collegi marginali moltiplicano i difetti di un sistema elettorale che poteva sopravvivere grazie al “cartello” laburisti/conservatori, ma che ha mostrato la corda con l’arrivo di una terza forza.
La prossima legislatura britannica dovrà fare i conti con una riforma in chiave (moderatamente) proporzionale per non annichilire quella logica “maschia” della politica che contraddistingue la tradizione anglosassone. Il modello australiano, salutato dai laburisti come un buon compromesso, non basterà ai LibDem decisissimi assertori di una svolta proporzionale. Ma il braccio di ferro più doloroso si avrà con i conservatori, il partito che i sondaggi indicano raccogliere più consenso seguito dalla formazione di Nick Clegg. Se, come sembra, le conseguenze saranno un parlamento “impiccato” (senza cioè la maggioranza assoluta proprio per l’emersione dei liberaldemocratici) e un negoziato Tory/LibDem, si allontanerà sempre più la possibilità di una riforma elettorale. Il leader conservatore David Cameron non ha voluto escludere trattative in tal senso, consapevole che il contrario gli precluderebbe ogni chance di insediarsi a Downing Street, anche se il partito rischia davvero di spaccarsi instradando Londra verso un periodo di pericolosa instabilità.
Comunque la fragilità resterà, anzi si aggraverà, anche nell’ipotetico scenario di un compromesso sulla riforma elettorale. Infatti, anche se quelle che i sondaggi oggi indicano come le due forze maggioritarie in termini di voto popolare – ma non necessariamente di seggi come abbiamo visto - trovassero un’intesa sul meccanismo di voto futuro non avrebbero per questo risolto le loro divergenze di fondo. I programmi politici dei due partiti divergono su molti punti – dalle riforme economiche, al programma Trident di ammodernamento dei sommergibili nucleari – ma è sulle questioni europee che sono proprio agli antipodi. Non solo e, soprattutto, non tanto su temi specifici ma sull’approccio globale verso Bruxelles. Nick Clegg è stato un euro-burocrate, negoziatore delle intese commerciali per nome e per conto della Commissione. David Cameron ha portato il partito fuori dal gruppo del Ppe e lo ha schiacciato sulle posizioni di compagini radicali dai toni antieuropeisti. È una divergenza strategica, più che tattica, apparentemente insanabile. Almeno per ora. È possibile tutto in politica, ma immaginare i falchi Tory (almeno sessanta nel gruppo parlamentare uscente probabilmente molti di più in quello entrante) arrendersi ai toni europeisti dei LibDem è, oggi, davvero difficile. A meno che la quieta rivoluzione che Londra ci sta offrendo, non vada ancora più in là di quanto abbia già fatto. A meno che, cioè, alla consapevolezza crescente dell’inadeguatezza del maggioritario secco, non si accompagni anche la flessibilità negoziale per stilare programmi di coalizione. Non ci sono precedenti e non c’è, soprattutto, l’abitudine al compromesso in una tradizione che concede al primo di prendere tutto. Senza sconti per nessuno.