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Commentary

Elezioni in Egitto: dove sono finiti i giovani di Piazza Tahrir?

27 maggio 2014

L’Egitto torna al voto per scegliere ancora una volta il successore del vecchio faraone. Ma se i sondaggi danno per certa l’elezione dell’ex ministro della Difesa, il potentissimo Abdel Fattah al-Sisi, la grande incognita è la partecipazione dei giovani, i veri protagonisti della rivoluzione del 2011 contro Mubarak sempre più marginalizzati dall’infinita transizione alla democrazia.

A gennaio erano stati proprio loro, i giovani, a rallentare la rincorsa al potere di al-Sisi, disertando il referendum sulla Costituzione scritta con la supervisione dell’esercito dopo la cacciata del presidente Morsi e la durissima repressione dei Fratelli musulmani (allora i sì furono oltre il 90% ma l’affluenza si fermò al 38,6%). Inizialmente in campo contro “la dittatura della maggioranza islamista” premiata dalle prime elezioni libere dell’Egitto, gli ex ragazzi di piazza Tahrir avevano poi pian piano preso le distanze da quello che a lungo si erano rifiutati di chiamare “golpe”, accreditandosi legittimamente l’iniziativa della rivolta del 30 giugno 2013. Mese dopo mese però, mentre il giro di vite dei militari stringeva la morsa sui pro Morsi ma anche su tutti gli altri oppositori, erano emersi i distinguo. Timidi, da principio. Poi sempre più decisi. Al punto da persuadere il governo a varare a novembre una legge iper-restrittiva contro le manifestazioni non autorizzate motivata ufficialmente dalla lotta al terrorismo nella penisola del Sinai.

A che punto è la coscienza politica egiziana che proprio grazie all’attivismo giovanile si sperava germogliasse dalla rivoluzione del 25 gennaio 2011? Gli under 30 sono a dir poco allo sbando, storditi dall’accelerazione che loro stessi hanno impresso alla Storia prima di esserne fatalmente travolti.

«Abbiamo cacciato Mubarak così velocemente da non rendercene conto, prima ci siamo fatti abbindolare dall’esercito, poi dai Fratelli musulmani e infine di nuovo dai generali» sintetizza amaramente il dentista ventiseienne Mohab Khamissi. Ha deciso che voterà per Hamdeen Sabbahi, il candidato nasseriano unico sfidante di al-Sisi. Ma per quanto approssimativi, i sondaggi bollano la sua scelta come elitaria, con almeno il 70% degli elettori intenzionato a incoronare l’ormai indiscusso campione nazionale che può contare sulle famiglie dei commilitoni (i militari non votano), la borghesia, i media main stream, i liberali del Wafd, molti nostalgici di Mubarak e i salafiti di al-Nur, un tempo alleati di Morsi. Resta l’incognita al-Kanaba, il leggendario “partito del divano”, l’imprevedibile variante apatica della politica egiziana: ma il margine di manovra è minimo.

In realtà la vera incognita sono proprio i giovani. E non tanto da un punto di vista pratico, perché tutti gli indicatori suggeriscono che nonostante la simpatia per Sabbahi, compagno di strada sin dal primo giorno, opteranno probabilmente per l’astensione. I ragazzi di Tahrir contano poco e poco conterà il loro eventuale boicottaggio di al-Sisi, ma simbolicamente rappresentano tanto. Prova ne è il fatto che poche settimane fa, mentre un tribunale del Cairo metteva al bando con l’accusa di spionaggio il movimento 6 Aprile (uno dei protagonisti del 25 gennaio), il ministro degli Esteri Nabil Fahmy illustrava a Washington le virtù e il coraggio dei suoi giovani connazionali, gli shabab, “gli eroi della rivoluzione”.

Al-Sisi sa che quel fronte è complicato quanto e forse più dell’opposizione islamista, che al grido di “no al golpe” sfida da mesi il governo ad interim. Sebbene siano oggi le vittime di una repressione senza eguali, i Fratelli musulmani portano sulle spalle il peccato originale di una gestione despotica del potere che gli ha fatto sfuggire la chance storica di rinnovarsi e rinnovare l’Egitto. I giovani no, non hanno macchie politiche. Hanno dato ingenuamente vita alla piazza per poi consegnare i trofei conquistati sul campo ai senior, i padri che avrebbero voluto “uccidere” ma a cui hanno finito per affidarsi, in caserma come in moschea. I giovani sbagliano ma hanno la forza di chi muore prima di intaccare il mito. Perderli è un po’ come perdere l’anima.

Mubarak, che aveva messo il generale a capo dell’intelligence militare, lo descriveva “astuto come un serpente”. Al-Sisi è rimasto dietro le quinte mentre il Consiglio supremo delle forze armate (Scaf) gestiva la transizione del 2011 più o meno su mandato di Tahrir. I rivoluzionari e soprattutto le rivoluzionarie ricordano che era lui l’ideatore dei famigerati test di verginità imposti dall’esercito alle attiviste durante gli scontri del 2012. Al-Sisi, convitato di pietra, c'era senza esserci. Poi però sono arrivate le folle di Tamarrud, i giovani artefici della campagna contro Morsi culminata nelle manifestazioni oceaniche del 30 giugno 2013 che spinti dalla paura di essere trascinati indietro dai Fratelli musulmani hanno “trascinato” al-Sisi alla ribalta.

«Siamo stati usati, eravamo ingenui, volevamo cacciare Morsi e la celebrità ci ha travolto, di colpo ci siamo ritrovati a sostenere l’azione violenta dell’esercito e tutto ci è scappato di mano» ammette ora uno dei sei fondatori di Tamarrud, Moheb Doss. La sua ricostruzione di quei giorni, consegnata poche settimane fa ai reporter, è un altro tassello del puzzle: «I militari hanno agito a nome nostro perché glielo abbiamo permesso, dovevamo chiederci come avessimo potuto portare in piazza milioni di persone da soli ma eravamo irresponsabili. Ci conoscevamo dai tempi di Kifaya, ci vedevamo al caffè Riche a Downtown, volevamo cambiare l’Egitto. All’inizio eravamo solo io, Walid el Masry, Mohammed Abdel Aziz, Mahmoud Badr e Hassan Shahin, poi hanno cominciato ad aggiungersi altri, facce nuove, ricevevamo inviti da parte del ministero dell’Interno, io non sono mai andato ma chissà se ascoltare quelle sirene mi avrebbe cambiato, i compagni che tornavano da lì sembravano i portavoce dei militari». Moheb non fa più politica, non voterà né per al-Sisi né per Sabbahi. Non entra nella polemica sull’aiuto dei generali nella raccolta di firme contro Morsi né su ipotetici vantaggi economici ottenuti dai suoi ex amici. A ottobre uno di loro, Hassan Shahin, è stato attaccato proprio in un caffè di Cairo Downtown al grido di “venduto”. Il padrone dell’appartamento che ospitava la sede di Tamarrud, Hashham Gobran, ha raccontato di averli visti cambiare, di aver visto comparire da un giorno all’altro tablet costosi.

Storia o leggenda che sia la memoria di un anno fa, Tamarrud esiste ancora ma ha accusato il colpo della repressione che si è abbattuta su tutti gli oppositori, islamisti, laici, giornalisti. Il movimento è ormai spaccato. La maggioranza ha seguito Mahmoud Badr e sostiene al-Sisi. Mohammed Abdel Aziz e Hassan Shaheen, che a gennaio avevano votato per la Costituzione benedetta dall’esercito, sono schierati adesso con Sabbahi ma giurano che non c’è crisi tra vecchi amici. 

L’alter ego dei Tamarrud sono i ragazzi del 6 Aprile, decani della protesta sin dallo sciopero operaio del 6 aprile 2008 da cui nacque il movimento. Il loro fondatore, Ahmed Maher, uno dei membri della consulta giovanile istituita nel 2011 dallo Scaf per gestire il post Tahrir, sconta oggi tre anni di prigione per manifestazioni non autorizzate. Altri sono ancora sotto processo insieme a centinaia di attivisti liberal e migliaia di pro Morsi (quasi 800 membri della Fratellanza sono stati da poco condannati a morte). L’attuale leader, il venticinquenne Ramy Sayed, vede nero: «È quasi peggio che sotto Mubarak, allora il regime ci concedeva di giocare come bambini, adesso non siamo più bambini».

Dov’è finita la meglio gioventù egiziana, quella invincibile perché capace di credere l’impossibile come liberarsi in 17 giorni di mezzo secolo di regime, gettare fiori ai carri armati pensando di addomesticarli, ritmare il canto del muezzin nella convinzione che canti davvero per tutti?

Una parte voterà per l’uomo del momento, il liberatore dell’Egitto dalla tirannia dei Fratelli musulmani, il mecenate che secondo una recente ricerca scientifica governativa avrebbe addirittura patrocinato la scoperta di una cura contro l’Aids. Da mesi l’esercito conduce a suo nome una campagna contro la disoccupazione giovanile che ha portato alla creazione di un corso specializzato per formare 100 mila figure professionali necessarie all’industria. Ideologizzato o meno che sia, chi guadagna 110 dollari al mese per non far parte della milizia dei senza lavoro (13% nel 2014 contro l’8,9% del 2011) sarà probabilmente sensibile all’argomento. Un’altra parte degli under 30 voterà per Sabbahi, il candidato che potrebbe forse raccogliere anche qualche pro Morsi insensibile al boicottaggio. Molti si asterranno, attratti e respinti da quel che possono produrre mobilitandosi. Secondo il politologo della Cairo University, Ahmad Abdel Rabbo, i giovani egiziani sono al punto di svolta, crescere o retrocedere all’infanzia della coscienza politica, restare movimento o costituirsi in partito politico assumendosi la responsabilità delle scelte giuste e di quelle sbagliate, ritirarsi in un Aventino generazionale o continuare sulla via intrapresa consapevoli che nessuna rivoluzione si compie in pochi mesi e dare battaglia a qualsiasi nuova tentazione faraonica degli al-Sisi di oggi e di domani. L’Egitto torna al voto ma qualsiasi sarà il risultato del 26 e 27 maggio 2014 non è a quello che bisogna guardare per capire il futuro del paese. Il probabile futuro presidente, che pochi giorni fa ha affermato in un'intervista «se il popolo volesse depormi lascerei il posto», lo sa.

Francesca Paci, giornalista de La Stampa

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