Sono 814,5 milioni gli indiani che sono stati chiamati al voto nelle più grandi elezioni democratiche della storia. Le urne si sono aperte il 7 aprile e si sono chiuse il 12 maggio. Una maratona in nove tappe attraverso i 35 stati e territori autonomi del subcontinente, secondo un calendario che ha tenuto conto delle diverse condizioni meteorologiche e delle festività. Hanno risposto all’appello in 551 milioni, con un’affluenza del 66,38%. Un record per il paese, nel 2009 la partecipazione si era fermata al 58%.
Quella che si è mobilitata per scegliere i 543 deputati della Lok Sabha, la Camera bassa del Parlamento, è un’India stanca delle promesse mancate. Il grande balzo in avanti sognato qualche anno fa, che avrebbe dovuto portarla a superare la corsa della Cina, si è ridimensionato a un piccolo trotto. Il tasso di crescita che svettava al 9% fino al 2010, si è dimezzato nel 2012 e resta inchiodato sotto al 5%.
Se il Pil non è tutto, come sostiene in particolare una scuola di economisti indiani, è di sicuro molto per un paese che ha bisogno di espandersi almeno del 6,5%-7,5% per assorbire i 10-12 milioni di giovani che ogni anno bussano alle porte del mercato del lavoro. Ma soprattutto per dar loro la possibilità di sfuggire alla palude dell’economia informale e conquistare un posto stabile, qualificante e ben pagato. In grado, insomma, di consentire l’ascesa sociale a chi viene dagli slum o dai villaggi rurali e deve allo stesso tempo mantenere famiglie molto numerose, che sui figli, soprattutto maschi, investono tutto il loro patrimonio, economico e di aspettative. Al contrario, perfino il dividendo demografico, quello che permette alle università indiane di sfornare ogni anno milioni di laureati, rischia di andare sprecato.
Ecco perché la spiritualissima India si è votata a un nuovo prosaico dio: il Pil. E sul suo altare ha sacrificato il partito del Congresso della dinastia Nehru-Gandhi, alla guida del Governo dal 2004 e per 54 dei 67 anni dall'indipendenza. La formazione di Sonia Gandhi incassa una sconfitta pesantissima. Il front runner scelto per la campagna elettorale, il figlio di Sonia, Rahul, non è stato in grado di rivitilizzarlo.
La politica dei sussidi, saliti dall’1,6% del Pil del 2009 al 2,4% nel 2014 (a 19 miliardi di dollari, poco meno di quanto New Delhi stanzia per sanità e istruzione messe insieme), non basta più a una popolazione che vuole scuole e insegnanti che non si assentino dalle lezioni più dei loro studenti, ospedali, elettricità e acqua tutto il giorno e non solo per qualche ora, strade asfaltate, ma soprattutto la possibilità di una vita migliore. Tanto più che l’assistenzialismo dello stato si perde nei rivoli di una corruzione capillare e non arriva dove dovrebbe, se non trasformando il diritto in favoritismo da ripagare con la moneta della clientela.
Questa volta, allora, gli indiani le loro aspettative le hanno affidate a Narendra Modi, il leader del partito nazionalista indù (Bjp), considerato meglio attrezzato per affrontare le emergenze del paese: lavoro, disuguaglianze e inflazione. La lotta al caro vita, per quel 33% della popolazione che vive con poco più di un dollaro al giorno, diventa una questione di sopravvivenza. Tanto che a far scoppiare crisi politiche e sociali può bastare l'aumento del prezzo delle cipolle, ingrediente base in una dieta poverissima.
Alla guida del Gujarat da 13 anni, Modi ha cavalcato i successi ottenuti nello stato che forse ha conosciuto lo sviluppo più rapido negli ultimi vent’anni, con tassi spesso a doppia cifra e superiori a quelli nazionali. Soprattutto, uno stato con il 90% delle strade asfaltate e corrente elettrica 24 ore su 24, dove le imprese non sono costrette a dotarsi di costosi generatori autonomi per non interrompere la produzione durante i frequenti e lunghi black out.
E poi, se il Congresso si è presentato al voto macchiato da una serie di scandali di corruzione, il leader del Bjp non sembra avere scheletri nell’armadio (altrettanto non si può però dire del suo partito). Altre sono le ombre che ne offuscano il passato. Vale a dire il suo ruolo negli scontri interreligiosi del 2002 nel Gujarat, un pogrom contro i musulmani che lasciò sul terreno oltre 1.200 vittime. Scagionato dalle indagini, Modi, che era Chief minister dello stato da pochi mesi, non è mai riuscito a liberarsi dalla condanna morale per non aver saputo o voluto impedire le violenze, se non di averle addirittura favorite. La sua ascesa alla guida del paese è sempre stata considerata una minaccia alla tormentata convivenza tra indù e musulmani (il 13% della popolazione) e un’incognita sui fragili rapporti tra India e Pakistan, due potenze nucleari. Ma anche questo tabù è ormai caduto.
La sfida per Modi e per il Bjp è ora quella di essere all’altezza delle promesse fatte in campagna elettorale e della voglia di cambiamento dell’India. Serviranno segnali forti e dovranno arrivare in fretta.
Gianluca Di Donfrancesco, Il Sole 24 Ore