Voto in Irlanda: così Brexit e crisi rafforzano i nazionalisti
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L'avanzata di Sinn Fein
Elezioni in Irlanda: così Brexit (e la crisi) hanno rafforzato i nazionalisti
Marco Varvello
09 febbraio 2020

Tre partiti praticamente alla pari. Non era mai successo nel quadro politico irlandese, fin dagli anni Trenta dominato dall’alternanza tra le due formazioni di centro-destra, Fine Gael e Fianna Fail. Il terzo incomodo è ormai lo Sinn Fein, che definire partito nazionalista di sinistra è certamente riduttivo. È la sua storia a parlare, a cominciare dal nome che significa “Noi soli”. Un partito che ha assunto la forma attuale negli anni Settanta, quando la guerra civile in Nordirlanda produsse formazioni politiche che erano di fatto fiancheggiatori e braccio armato dei gruppi paramilitari. Come lo Sinn Fein fu appunto dell’IRA, l’esercito repubblicano, durante i Troubles, presentandosi alle elezioni politiche sia in Ulster sia nella Repubblica d’Irlanda. È un risultato enorme dunque che lo Sinn Fein abbia ora raggiunto i consensi dei due partiti tradizionali a Dublino, pur mancando il sorpasso che i sondaggi indicavano come possibile. Un successo raggiunto dalla nuova dirigenza, che solo nel 2018 si è liberata della tutela dei controversi padri storici, Jerry Adams e prima Martin McGuinness. Volti nuovi e giovani, entrambe donne, sono le leader Mary Lou McDonald a Dublino e Michelle O’Neill a Belfast.

Il risultato di questo voto è una sconfitta pesante per il Premier uscente Varadkar, che aveva indetto elezioni anticipate proprio per rafforzare il suo Fine Gael e invece finisce per perdere voti. Anche se paradossalmente sarà ancora lui il Taoiseach (Premier) in un probabile rinnovato governo di coalizione con il Fianna Fail, visto che nessuno ha la maggioranza e entrambi i partiti tradizionali escludono accordi con i nazionalisti. Ma la strategia di Varadkar è stata chiaramente battuta. Stesso errore che fece Theresa May nel voto anticipato britannico del 2017: alle urne in anticipo per governare con più forza ma usciti dal voto più deboli di prima.

E così come tutto in Irlanda anche questo voto ha due volti.

Visto in chiave interna irlandese è il segnale che l’austerità imposta anche in questi anni dal governo di Varadkar incontra forti resistenze in un Paese che ha subito più di altri la crisi finanziaria del 2008, uscendone solo a prezzo di tagli alla spesa sociale. Rafforzato ora economicamente ma logorato e stanco socialmente. Malcontento espresso da questo voto dunque, nonostante l’economia veleggi a ritmi superiori al 5 per cento e la disoccupazione al 4,8 per cento sia ben al di sotto della media europea e ad esempio meno della metà di quella italiana. Non basta evidentemente il consenso della fascia alta dell’elettorato, quella che è riuscita a cavalcare il boom della Tigre celtica fin dai ruggenti anni Ottanta. Tanto più se la stessa classe imprenditoriale e finanziaria si vede ora minacciata causa Brexit dal rischio di dazi e controlli doganali verso il mercato britannico, che rappresenta in molti settori la metà delle esportazioni irlandesi.

Letto in chiave britannica invece questo risultato si può interpretare in un solo modo: effetto Brexit anche qui. Il voto politico a Dublino è stato infatti speculare a quello di dicembre a Belfast, quando si votò per il Parlamento britannico nelle elezioni anticipate volute da Johnson. Sia a nord che a sud del confine, sia nelle sei contee britanniche sia nel resto dell’isola si rafforzano dunque i partiti repubblicani nazionalisti che storicamente puntano alla riunificazione. In Ulster a dicembre per la prima volta, complice anche il cambiamento demografico, lo Sinn Fein e i socialdemocratici hanno superato i partiti unionisti britannici, DUP e UUP. Adesso nel voto irlandese non solo lo Sinn Fein avanza di quasi 10 punti percentuali ma il suo successo è ancora più marcato presso le giovani generazioni. Lo ha votato un elettore su tre tra i 18 e i 24 anni. Ne esce dunque rafforzata la richiesta del partito, già formalizzata dalla leader McDonald, di tenere un referendum sulla unificazione dell’isola entro cinque anni.

Ovviamente il governo britannico di Boris Johnson non ha la minima intenzione di aprire anche questo fronte, dopo quello già scoppiato in Scozia. Quindi la risposta del Parlamento di Westminster sarà decisamente no. Ma a differenza del caso catalano, dove il referendum sull’indipendenza rimane anticostituzionale, sia per Ulster sia per la Scozia il referendum è uno strumento previsto e già utilizzato. Anzi per il Nordirlanda è contemplato formalmente dall’accordo di pace del 1998.

Brexit ha dunque chiaramente accelerato forze centrifughe delle nazioni del Regno Unito. I piccoli movimenti tellurici di questi risultati elettorali preludono a scosse molto più grandi in futuro, soprattutto se la Brexit non si rivelerà nei fatti e per la vita della gente quel successo che i suoi paladini hanno sempre promesso. Allora davvero anche tra gli Unionisti lealisti dell’Ulster potrebbe insinuarsi il dubbio che sia meglio stare tutti insieme in una Irlanda riunificata. Il voto di sabato lo conferma.

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Europa irlanda
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AUTORI

Marco Varvello
Bureau Chief RAI per Regno Unito e Irlanda

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