Pareggio era stato ad aprile e pareggio è stato di nuovo nelle elezioni ripetute il 17 settembre in Israele. Ma in un contesto completamente diverso, che stavolta sembra destinato davvero a mettere in forte crisi la leadership di «re Bibi» Netanyahu.
Non deve, infatti, trarre in inganno il dato sullo scarto minimo tra i 31 seggi che i dati dello spoglio attribuiscono al Likud e i 32 del partito centrista Blu e Bianco di Benny Gantz, l'ex generale divenuto il principale sfidante del premier uscente da dieci anni ininterrottamente alla guida del governo in Israele. Questo esito stavolta è una pesante sconfitta personale per Netanyahu, nell'ennesima tornata elettorale da lui trasformata in un referendum sulla sua persona. Il Likud aveva ottenuto 35 seggi nelle elezioni di aprile; ma in questi cinque mesi seguiti alle precedenti elezioni aveva anche inglobato uno dei suoi alleati nella coalizione, il partito dell'ex ministro delle Finanze Moshe Kahlon, che avrebbe dovuto portare in dote altri 4 seggi. Alla fine – dunque – Netanyahu ha perso per strada ben 8 seggi, buona parte dei quali sono finiti al partito del suo nemico giurato Avigdor Liberman, l'ex ministro della Difesa leader di Yisrael Beiteinu che con la sua intransigenza nei confronti dei partiti religiosi ha reso impossibile la formazione di un governo dopo il voto di aprile.
Con i suoi 9 seggi su 120 alla Knesset, da oggi in poi Liberman sarà ancora più forte e si profila come il vero ago della bilancia di qualsiasi coalizione. Anche perché – da parte sua – lo stesso Gantz ha tenuto ma non ha affatto sfondato. Anche Blu e Bianco con l'aumento dei votanti tra gli arabi perde infatti 3 seggi rispetto al risultato elettorale di aprile che vanno alla Lista Araba Unita (che sale a 13 seggi e torna a essere la terza forza in parlamento). Mentre ciò che resta della sinistra sionista israeliana guadagna un seggio (complessivamente 5 seggi al Campo democratico – l'alleanza tra Ehud Barak e il Meretz – e 6 ai Laburisti). Il saldo complessivo dell'ipotetica coalizione di centro-sinistra, dunque, non cambia di molto: arriva a 56 seggi, insufficienti per governare. Del resto si tratta di un dato solo aritmetico, perché Gantz non ha mai aperto alla possibilità di una coalizione di governo che comprenda anche il partito arabo. E da parte sua Liberman ha già espressamente escluso qualsiasi intesa con “forze non sioniste”.
In un quadro del genere la palla torna nelle mani del presidente di Israele Reuven Rivlin che dovrà conferire l'incarico per formare il governo. Già alla vigilia delle elezioni Rivlin aveva espresso più volte la sua profonda preoccupazione per la polarizzazione che ha accompagnato questo voto, aggiungendo che si opporrà con tutte le sue forze a un terzo ricorso consecutivo alla prova delle urne. È facile prevedere che spingerà per la formazione di un esecutivo di unità nazionale, impresa comunque non facile per i veti incrociati tra le diverse forze in campo.
L'unica strada che al momento sembrerebbe percorribile è quella indicata da Liberman stesso come la sua opzione: una coalizione formata da Blu e Bianco, Likud e il suo partito Yisrael Beitenu, lasciando fuori l'ultra-destra nazionalista e i partiti religiosi oltre che gli arabi e la sinistra. Un governo del genere potrebbe contare su una maggioranza solida di 72 seggi; difficilmente, però, a guidarlo potrebbe essere Netanyahu. Tanto più che sulla sua testa pende l'appuntamento – tra un paio di settimane – con l'interrogatorio al termine del quale potrebbe essere rinviato a giudizio nelle inchieste per corruzione aperte contro di lui ormai da un paio d’anni e congelate finora solo grazie alle campagne elettorali.
Le possibilità per sbloccare la situazione sembrano allora sostanzialmente due: in prima battuta Rivlin affiderà l'incarico a Gantz, ma non è detto che riesca a formare un governo. L'alternativa è che il Likud – in una resa dei conti interna – accetti di aprire all'idea di un proprio esponente che non sia Netanyahu alla guida del governo. Questa seconda ipotesi, probabilmente, avrebbe più possibilità di successo; ma “re Bibi” ha già mostrato in queste ore di non volerne sapere.
Comunque vada a finire la partita è difficile immaginare grandi mutamenti nelle politiche del governo israeliano nei confronti della questione palestinese e nelle relazioni internazionali. Il cambiamento potrebbe invece toccare due questioni interne: la prima è il rapporto tra laici e religiosi nella società israeliana; Liberman ha costruito su questo la sua campagna e gli elettori – sempre più insofferenti per le concessioni di Netanyahu ai partiti religiosi – gli hanno dato ragione. La seconda è il tema degli arabi israeliani, i discendenti della popolazioni di etnia araba che nel 1948 scelsero di rimanere in Israele come cittadini e che oggi sono più del 20% della popolazione. In questi anni l'accelerazione sul nazionalismo ebraico impressa da Netanyahu ha creato grandi tensioni. E come reazione la consapevolezza da parte degli arabi che solo unendosi e facendo contare i propri voti alla Knesset possono difendere le loro prerogative. Se il governo di unità nazionale nascerà, il leader della Lista Araba Unita Ayman Odeh diventerà il leader dell'opposizione alla Knesset. E questo non sarà un simbolo da poco.