Il 51% degli israeliani non vuole che Benjamin Netanyahu rimanga come primo ministro e solo il 21% vuole un governo con i partiti ultraortodossi (sondaggio di Channel 12): guardando le dinamiche in gioco, sembra difficile che questa affermazione possa effettivamente essere rispecchiata dai risultati (ancora incerti) del 23 Marzo. Si spera però che queste elezioni possano porre una fine allo stallo politico degli ultimi due anni.
Sullo sfondo di questa tornata elettorale abbiamo tre precedenti round andati a vuoto e le ripercussioni della pandemia di Covid-19, ma anche una campagna vaccinale di enorme successo che ha permesso a Israele di tornare lentamente alla normalità. Quali sono le dinamiche e i punti nevralgici attorno a cui si giocherà il voto?
Ad una prima occhiata, lo scenario che si presenta non sembra discostarsi sostanzialmente da quello delle tre precedenti tornate. Il sistema politico appare affaticato e cristallizzato nei due blocchi avversari: pro e contro Netanyahu, caratterizzati da un altissimo livello di polarizzazione e da un bassissimo livello di permeabilità, derivanti dall’alta fidelizzazione degli elettori rispetto al proprio schieramento.
Nonostante quindi non si prevedano netti spostamenti di equilibri tra i due blocchi, sono apparsi interessanti partiti-cuscinetto, tra i due schieramenti come per esempio Nuova Speranza (Tikva Hadasha) di Gideon Sa’ar, che potrebbe favorire un sostanziale trasferimento di voti.
Per poter comprendere gli equilibri, risulta necessario osservare i sondaggi tenendo però in considerazione che il margine di errore di questi è del 4,2 %, che equivale a cinque seggi alla Knesset. I numeri che prendiamo in considerazione sono la media dei sondaggi pubblici pubblicati nella scorsa settimana (dal 12 al 19 di marzo), ovvero gli ultimi sondaggi mostrabili prima delle elezioni. Il Likud risulta stabile a 29 seggi e, nonostante si riconfermi maggior paritito, si ritrova anche a dover fronteggiare una situazione per cui i suoi alleati potrebbero non ottenere i numeri necessari per formare il governo.
“C’è Futuro” (Yesh Atid) di Yair Lapid sarebbe invece il secondo partito con 19 parlamentari; secondo queste proiezioni, emergerebbe come partito leader dell’opposione anche se, guardando in ottica di formazione di governo, il candidato più probabile a diventare primo ministro risulterebbe essere Gideon Sa’ar con il suo partito Nuova Speranza (10 seggi). Altri due membri del fronte anti-Netanyahu sono Avigdor Lieberman con Israele la Nostra Casa (Yisrael Beitenu), 7 parlamentari, e Naftali Bennet con Destra (Yamina) con 11. Tanto Sa’ar quanto Bennett e Lieberman hanno deciso di sfidare Netanyahu dall’interno del fronte nazionalista israeliano e, guardando i numeri, si nota come il pivot politico si sia spostato verso destra. Detto questo, risulta difficile immaginare un governo alternativo alla leadership di Netanyahu che non comprenda anche C’è Futuro; resta da capire se saranno in grado di superare le differenze ideologiche.
D’altro canto, se Sa’ar, Lieberman e Lapid hanno esplicitamente confermato la loro posizione nel non volersi unire a un governo guidato dall’attuale primo ministro, negli ultimi giorni Bennett ha mostrato segni di tentennamento a riguardo. Anche però nel caso in cui questo spostamento avvenga, Netanyahu avrebbe solamente 60 parlamentari: 29 dal Likud, 11 di Destra, 8 da Shas, 7 da Giudaismo della Torah Unita e 5 di Sionismo Religioso. Un seggio di distanza dai 61 parlamentari necessari per governare.
In questa elezione quindi, il punto di svolta sembrerebbe giocarsi sul limite della soglia di sbarramento, dove al momento sono in bilico quattro partiti: Sionismo Religioso, Blu e Bianco (Kahol Lavan), Meretz e Lista Araba Unita (o Ra’am). Se Sionismo Religioso (lista di estrema destra) non dovesse ottenere il 3,25% dei voti, per Netanyahu significherebbe trovarsi senza un pezzo dell’equazione di governo.
Ė particolarmente interessante osservare il partito arabo Ra'am, in quanto sta cambiando le dinamiche della politica israeliana avvicinandosi ai partiti di destra: nel tentativo di ottenere risultati su questioni di particolare preoccupazione per la comunità araba, il leader Mansour Abbas ha deciso di tenersi aperta la possibilità di raccomandare Netanyahu come candidato per formare una coalizione dopo le elezioni, lasciando così il fronte arabo della Lista Comune la cui presenza nella Knesset verrà notevolemente ridotta passando da 15 a 9 seggi. In generale, queste elezioni hanno dato particolare rilevanza al settore arabo della società; il Likud in primis ha condotto una campagna molto serrata tra i cittadini arabo-israeliani (in contraddizione con la narrativa adottata nei precedenti anni) con l’obbiettivo di ottenere dai 2 ai 3 seggi, approfittando della dispersione dei voti derivante dalla divisione della Joint List.
Osservando questi quattro partiti possiamo scoprire le drettrici principali lungo le quali si è concentrata la tattica elettorale di Netanyahu: da una parte, cercare di minimizzare le perdite nel suo blocco, dall’altro dividere le opposizioni. Infatti, dopo essere riuscito a portare Benny Gantz nello scorso governo di unità nazionale insieme a due ministri del Partito Laburista, Netanyahu ha rotto le alleanze tra C’è Futuro e Blu e Bianco, tra Meretz e i laburisti. Stessa procedura è stata applicata con la Lista Araba Unita. Da sottolineare che ad aprile 2020 i partiti dell’opposizione erano quattro, adoggi sono dieci.
Seppur non vi sia una maggioranza chiara assegnata a uno dei due blocchi, l’attuale primo ministro risulterebbe ancora una volta il candidato con più strade percorribili per la formazione del governo. Altrettanto vero è però che Netanyahu non si aspettava affatto di andare al voto il 23 marzo con i sondaggi stabili a 28-30 seggi; avrebbe desiderato invece raccogliere i frutti della campagna vaccinale raggiungendo il precedente risultato di 36 parlamentari. Sia nel bene che nel male, sembra quindi che la gestione della pandemia non abbia influito sulle tendenze elettorali, come già accaduto con l’annuncio della messa in stato di accusa di Netanyhau nella tornata elettorale di aprile 2019. La spiegazione risiede nella presenza di forti sentimenti pro e contro Netanyahu che si sono ancorati a dinamiche di voto pre-esistenti.
Inoltre, con l’emergenza Covid, l’oppozione ha perso l’occasione di elaborare un messagio che potesse andare oltre al semplice slogan “chiunque tranne Bibi”. Se il movimento di opposizione a Netanyhau ha sicuramente vinto nelle strade, riuscendo a portare 50.000 persone sabato scorso di fronte all’abitazione del primo ministro (dopo 39 settimane consecutive di proteste), resta da vedere se questo impeto riuscirà ad essere tradotto nella Knesset con la formazione di un’attuabile coalizione di governo.