Come in tutte le competizioni elettorali, gli slogan dei partiti in lizza per le elezioni del parlamento regionale curdo sono molto indicativi; i due partiti storici KDP e PUK richiamano l’identità nazionalista e alla continuità di governo rispettivamente con “Costruire un Kurdistan forte” e “Verso un Kurdistan sviluppato”. I partiti di opposizione, invece, si appellano ad un’idea di cambio e rinnovamento. Infatti, l’attuale secondo partito in parlamento si presenta con “Il Gorran è la forza del cambiamento”, mentre l’Unione islamica curda ha scelto semplicemente “Riforma”; più combattivi invece gli islamisti del Komal con un “Noi non molliamo”, mente l’anti-sistemico Neway Nwe ha scelto un eloquente “Cambiando l’intero sistema”.
Le elezioni si terranno il 30 settembre prossimo e vedranno oltre 700 candidati gareggiare per i 111 seggi del parlamento regionale curdo. Si tratta della quinta tornata elettorale dal 1992 ma, in realtà, per il Kurdistan iracheno l’importanza di queste elezioni è enorme. Il governo che ne uscirà sarà quello che dovrà affrontare una profonda crisi interna, non solo economico-finanziaria ma anche di legittimazione della classe politica; dovrà poi negoziare con Baghdad, per riequilibrare e recuperare le relazioni, oltre che barcamenarsi in un contesto regionale di crescente polarizzazione.
I prodromi
L’attuale parlamento è stato eletto nel 2013, e non ha avuto vita facile. Nel 2014 il Kurdistan si trovava ad affrontare l’avanzata del Da’esh, l’arrivo di centinaia di migliaia di profughi e una incipiente crisi economica, mentre con al-Maliki alla guida del governo federale, i rapporti con Baghdad erano pessimi. Però anche sul fronte interno la situazione era critica; Massud Barzani aveva cercato più volte il rinnovo della sua presidenza, ma il conseguente scontro con l’opposizione del Gorran portò alla paralisi del parlamento per due anni. Per uscire dall’impasse interno, e sfruttare la debolezza di Baghdad consolidando le conquiste fatte Kirkuk inclusa, si arrivò così al referendum indipendentista del settembre 2017. Però Massud Barzani sbagliò i calcoli politici, sopravvalutando l’appoggio internazionale al Kurdistan e sottovalutando la reazione del governo federale.
I risultati sono stati devastanti: sul piano diplomatico il Kurdistan è stato isolato e la comunità internazionale ha adottato la “One Iraq Policy”, ovvero ha puntato tutto sull’unità irachena e la supremazia del governo federale; Kirkuk, col suo petrolio, è andata perduta senza combattere grazie a quello che è tutt’ora visto come una via di mezzo tra un intrigo persiano ed un tradimento del PUK; infine, il governo di Baghdad ha adottato misure punitive economiche e finanziare che hanno messo in ginocchio la regione. A questo punto, il primo novembre scorso Massud Barzani si è dimesso dalla presidenza, e i poteri della carica sono stati divisi tra il primo ministro, il parlamento e la magistratura.
Senonché, il ritiro di Massud Barzani e le elezioni federali irachene del 12 maggio scorso hanno aperto la strada, dopo ben 8 mesi di rinvii, alle prossime elezioni parlamentari curde.
I concorrenti
Da un lato c’è la coalizione KDP e PUK, attualmente al governo con il Primo Ministro Nechirwan Barzani e il suo vice Qubad Talabani. In realtà l’alleanza è meno solida di quanto ci si possa aspettare, tant’è che i due partiti sono in aperta competizione per la candidatura alla presidenza federale e continuano a dividersi il controllo del territorio curdo tramite le rispettive milizie peshmerga. Sta però di fatto che, sia alle precedenti elezioni federali che nelle trattative in corso a Baghdad per la formazione del governo, i due partiti storici sono fianco a fianco.
L’opposizione appare debole e divisa, priva di un baricentro, essendo composta da partiti di sinistra, islamisti e anti sistemici. I partiti di sinistra, ovvero il Partito Curdo dei Lavoratori e degli Operai, il Partito Socialista Democratico Curdo e l’Unione Nazionale Democratica del Kurdistan si sono coalizzati nell’alleanza Sardam (“Moderno”), ma difficilmente otterranno un risultato significativo. L’Unione Islamica Curda (o Yekgirtu), il più grande partito islamista con attualmente 10 seggi, si è coalizzato nella lista “Verso il Cambiamento” con il Movimento Islamico Curdo, che attualmente ha due seggi. Senonché il Gruppo Islamico Curdo (o Komal), che oggi ha sei seggi, è rimasto fuori dal blocco islamista.
Il quadro dei partiti “anti-sistemici” è ancora più diviso e in crisi. Il Gorran, che alle scorse elezioni aveva battuto il PUK ottenendo 24 seggi contro 18, è in difficoltà; i due figli del fondatore sono rimasti coinvolti in scandali nella gestione di fondi del partito, e la loro leadership non è stata accetta da tutti.
La “Coalizione per la Democrazia e la Giustizia”, nato da una scissione dal PUK nel 2017, si è ritirato dalle elezioni dopo che il suo leader Barham Salih ha ottenuto l’appoggio del PUK per la candidatura alla presidenza federale. Ad assumere il ruolo di alternativa al monopolio KDP-PUK, rimane il Neway Nwe (“Nuova Generazione”); il suo leader Shaswar Abdulwahid si pone in antitesi con tutte le altre forze politiche, cercando di presentarsi come partito anti-sistemico per un rinnovamento radicale. Di fatto, il Neway Nwe rappresenta l’unica incognita su un voto il cui esito apparrebbe sostanzialmente scontato.
Le previsioni
Infatti, anche se è comunque azzardato fare previsioni, ci si aspetta una riconferma del KDP, egemone incontrastato nelle province che controlla, mentre ben diversa è la situazione del PUK. Sostanzialmente, l’Unione Patriottica del Kurdistan ha due problemi; innanzitutto, l’elettorato delle province che controlla è storicamente più incline ad appoggiare partiti d’opposizione, sia islamisti che anti-sistemici. Ad esempio, alle elezioni del 2013, il PUK fu sorprendentemente scavalcato dal Gorran, nato da una scissione del PUK stesso. Secondariamente, il PUK rischia di pagare elettoralmente quello che molti curdi considerano come un tradimento, ovvero la consegna di Kirkuk al governo federale nell’ottobre 2017. Forse, però, a salvare il PUK interverrà la debolezza delle opposizioni e l’astensionismo, che però fornirà anche la cifra della disaffezione popolare per la politica e della sfiducia nelle istituzioni.
Dunque, quel che ci si aspetta dal voto è una riconferma del duopolio KDP-PUK, che formerà un governo magari riconfermando l’attuale primo ministro e il suo vice; al di là dell’esito del voto, l’affermazione di un governo a guida KDP-PUK avverrà anche attraverso la cooptazione di singoli parlamentari eletti nelle quote riservate alle minoranze, o grazie all’appoggio di politici che abbandoneranno il proprio partito in cambio di posizioni di potere. Del resto, l’asse KDP e PUK può contare anche sul controllo dello “stato profondo” curdo, ovvero sul controllo dell’amministrazione civile e militare, entrambe altamente politicizzate.
Le sfide
Il governo che uscirà dal voto di fine settembre dovrà affrontare una serie di temibili sfide. Innanzitutto, a livello interno, è urgente un miglioramento del quadro economico e finanziario. Disoccupazione, corruzione e mancanza di servizi essenziali come acqua ed elettricità ciclicamente provocano manifestazioni di protesta; inoltre, un recentissimo report dell’Ufficio Curdo di Statistica e dell’ONU evidenzia come quasi metà della forza lavoro dipenda dal settore pubblico, e come la disoccupazione giovanile tocchi il 20%.
Inoltre, sul piano della politica interna, rimane irrisolta la spinosa questione della presidenza regionale. Mentre il KDP attende il voto per cercare di reintrodurla, magari apportando modifiche legislativo-costituzionali tali da permettere il reinsediamento di Massud Barzani, alcuni partiti d’opposizione già in campagna elettorale si sono espressi per una abolizione della carica o, quanto meno, un suo depotenziamento.
Secondariamente, a livello federale, devono essere sciolti nodi vitali come il controllo di Kirkuk e delle aree interne disputate, la gestione delle risorse petrolifere, le allocazioni di bilancio federale e la gestione della sicurezza e delle forze armate. Del resto, a fronte della pressoché unanime opposizione al referendum indipendentista del settembre 2017 persino da parte dei suoi alleati, nonché della “One Iraq Policy” adottata dalla comunità internazionale, ora la leadership curda ha ben compreso che la partita per la ripresa economica e politica del Kurdistan si gioca a Baghdad. Solo che qui il malcontento popolare, il confronto tra sciiti nazionalisti e filo-iraniani, le tensioni tra USA e Iran, nonché la persistenza del Da’esh annidato nelle aree contese tra arabi e curdi, rischiano di rendere il governo federale un interlocutore difficile.
Infine, a livello regionale, il futuro governo curdo dovrà far fronte alle crescenti pressioni politiche e armate di Turchia e Iran, dirette contro i movimenti curdi insurrezionali che trovano rifugio nel Kurdistan iracheno. Il tutto, in un quadro di crescente polarizzazione tra Washington e Teheran, mentre però, senza troppo clamore, la Russia sta facendo rilevanti investimenti proprio nel settore strategico del petrolio e gas curdo.
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