Alle elezioni presidenziali e legislative di sabato 11 gennaio a Taiwan i quasi 14 milioni e mezzo di elettori presentatisi alle urne hanno operato una scelta identitaria tra “taiwanesità” e “cinesità”, optando per la prima. La conferma di Tsai Ing-wen si fonda proprio sul modo in cui la candidata del Democratic Progressive Party (DPP) è riuscita a presentarsi come protettrice di Taiwan, considerata una provincia ribelle da Pechino, dopo che il tema della sovranità è tornato il focus principale degli elettori.
In termini percentuali, Tsai ha guadagnato un solo punto rispetto al 2016, passando dal 56,1% al 57,1%. Ma i numeri assoluti sono da record: per la prima volta un presidente di Taiwan viene eletto con oltre otto milioni di voti (8.170.231), superando i 7.65 milioni di Ma Ying-jeou nel 2008. Questo grazie anche a un’affluenza del 74,9%, il dato più alto delle ultime tre presidenziali e un grande balzo rispetto al 66,3% di quattro anni fa. Il rivale del Guomindang (GMD), Han Kuo-yu, si è fermato al 38,6%: in crescita rispetto al 31% di Eric Chu nel 2016, grazie alla marginalizzazione del terzo incomodo, James Soong del People First Party (PFP), che scende dal 12,8% al 4,3%.
Eppure, un anno fa sembrava quasi impossibile che Tsai potesse conquistare un secondo mandato. La sconfitta del DPP alle elezioni amministrative era stata netta e l’aveva portata a lasciare la presidenza del partito. Persino la sua candidatura alle elezioni presidenziali sembrava in bilico. Il GMD (il cui presidente Wu Den-yih si è dimesso subito dopo l’esito del voto) contava di capitalizzare il successo del 2018 insistendo sui temi economici e puntando su Han, che era riuscito a strappare agli avversari lo storico feudo del DPP a Kaohsiung, una delle più grandi città a sud dell’isola.
Che cosa è successo nel frattempo? Tre fattori hanno riportato l’attenzione dei cittadini sul tema della sovranità. Il primo è il discorso di Xi Jinping del 2 gennaio 2019, nel quale definisce la riunificazione “un processo inevitabile” e non esclude l’utilizzo della forza per raggiungerla. Il secondo è la crisi di Hong Kong, che ha abbassato ancora di più il gradimento per il modello “un paese, due sistemi” applicato nell’ex colonia britannica e che il Partito Comunista Cinese (PCC) propone di applicare anche a Taiwan come fase di transizione verso la riunificazione. Il terzo è il netto miglioramento dell’economia, anche grazie alla guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina che ha spinto oltre 150 aziende taiwanesi, site nella Cina continentale, a tornare sull’isola per evitare i dazi. La combinazione di questi fattori ha reso le elezioni una scelta prettamente identitaria. E su questo campo non poteva esserci partita, anche per due errori del GMD: l’incontro dello scorso febbraio tra Han e Wang Zhimin, allora direttore dell’Ufficio di Collegamento tra Hong Kong e Pechino, e la prima lista di candidati allo Yuan legislativo del partito, che conteneva diversi sostenitori della riunificazione.
Tra i candidati, Tsai era senza dubbio l’unica a rappresentare il sentimento di “taiwanesità” che è sempre più diffuso, in particolare tra i giovani, come dimostra un recente sondaggio del Commonwealth Magazine secondo il quale l’82,4% degli elettori tra i 20 e i 29 anni si identifica come “taiwanese”. In questo contesto, è chiaro come il tempo giochi contro il GMD, che continua a considerare la “cinesità” come l’identità fondamentale di quella che ufficialmente ancora si chiama “Repubblica di Cina”. Infatti, i risultati del voto per la legislatura di Taiwan dimostrano che, per ora, il “blocco blue” – quello pro-Pechino, contrapposto al “blocco green” pro indipendentista – rimane saldo, con il GMD che guadagna 3 seggi rispetto al 2016, sottratti al PFP che da 3 passa a 0. La composizione dello Yuan legislativo dimostra che la popolarità di Tsai è maggiore rispetto a quella del DPP, che perde 7 seggi: solo il 72% dei voti di Tsai sono andati anche al suo partito, contro l’87% della coincidenza di voto tra Han e il GMD. A sottrarre voti al DPP, che comunque mantiene la maggioranza dello Yuan, è stato soprattutto il nuovo Taiwan People’s Party (TPP) che ha conquistato 5 seggi. Il suo leader, il sindaco di Taipei Ko Wen-je, è molto popolare tra i giovani per la sua retorica anti-partitica, e potrebbe diventare un vero rivale per il DPP alle prossime elezioni del 2024. Le altre due forze presenti nello Yuan, entrambe apertamente pro-indipendenza, sono il New Power Party (NPP) con 3 seggi e il Taiwan Statebuilding Party (TSP) con 1 seggio, conquistato, contro ogni aspettative, da Chen Po-wei proprio nella roccaforte del GMD, il secondo distretto di Taichung.
Pechino ha reagito alla vittoria di Tsai, ribadendo che continuerà a lavorare alla “riunificazione pacifica”. Difficile che le relazioni tra Taipei e Pechino possano migliorare nei prossimi quattro anni. Entrambi sono fermi sulle proprie posizioni sul “Consenso del 1992”, che stabiliva il principio di “un’unica Cina”. Il governo cinese ne chiede infatti il riconoscimento prima di riprendere il dialogo, mentre il DPP continua a rifiutarlo. Nella sua prima conferenza stampa dopo la riconferma, Tsai ha ribadito che il dialogo tra Pechino e Taiwan deve basarsi sul principio di “parità” e sull’assenza di prerequisito da parte di Pechino. Tsai, spesso descritta come pro-indipendentista, continua a sostenere lo status quo: uno status quo nel quale la continua erosione di alleati diplomatici di Taipei (ora solo 15) da parte del PCC non ha comunque impedito a Tsai di essere rieletta. Il tempo passa e la partita, mentre Taiwan continua la sua transizione democratica, diventa sempre più delicata.