La Commissione elettorale suprema della Turchia ha deciso di annullare il voto amministrativo dopo appena tre settimane dall’insediamento di Ekrem Imamoglu, candidato del Partito repubblicano del Popolo (Chp), sulla poltrona di primo cittadino di Istanbul, la più popolosa città del paesa. Un insediamento avvenuto però con qualche settimana di ritardo rispetto alle elezioni del 31 marzo che avevano segnato una battuta d’arresto per il partito del presidente Erdogan. Infatti, pur affermandosi come primo partito del paese con circa il 45% dei consensi, il Partito Giustizia e Sviluppo (Akp) aveva perso il controllo delle grandi città del paese, in particolare Ankara e Istanbul dove governava ininterrottamente da più di vent’anni. Ma mentre la vittoria dell’opposizione ad Ankara era stata netta, a Istanbul l’Akp aveva chiesto una riconta delle schede elettorali proprio per l’esiguo margine tra Imamoglu e il suo candidato, adducendo presunte irregolarità. Nonostante il margine di voti a favore di Imamoglu si fosse ridotto, la vittoria era sembrata inequivocabile.
Dopo sedici anni ininterrotti al potere, la perdita di Istanbul aveva segnato una cocente sconfitta per il presidente che nella campagna elettorale si era speso in prima persona per i candidati del suo partito e a Istanbul, proprio per l’importanza della posta in gioco, aveva presentato una persona del calibro dell’ex primo ministro e presidente dell’Assemblea nazionale Binali Yldirim. “Chi vince a Istanbul, vince in Turchia” aveva infatti ripetutamente sostenuto il presidente nei mesi che hanno preceduto il voto. E questo non soltanto per l’elevato valore simbolico della città sul Bosforo dove nel 1994 è iniziata la carriera politica di Erdogan, ma anche perché è qui che si trova il cuore economico e finanziario del paese, inclusa la gestione di un importante giro d’affari e di contratti milionari nel settore delle costruzioni.
L’annullamento del risultato elettorale senza possibilità di appello, giunto in seguito alla denuncia dell’Akp per irregolarità nello svolgimento del voto, e la decisione di rifare le elezioni il prossimo 23 giugno non hanno mancato di suscitare dure reazioni da parte dell’opposizione, che ha definito l’attuale sistema turco come una “dittatura pura”. Anche le piazze di Istanbul si sono mobilitate e in molti distretti della città la gente ha protestato contro una decisione giudicata ingiusta. Se al momento le proteste sembrano contenute, non si esclude che nei prossimi giorni possano trasformarsi in manifestazioni di più ampia portata, ma potrebbero anche sgonfiarsi del tutto. Molto dipenderà dalle prossime mosse del governo e del principale partito di opposizione. La delusione serpeggia in ampi strati della popolazione del paese dove in molti sembrano condividere l’affermazione del vicepresidente del Chp, Onursal Adiguzel, secondo il quale queste nuove elezioni dimostrano come oggi in Turchia sia “illegale vincere contro l’Akp”. Questa decisione, infatti, oltre a gettare delle ombre sull’autonomia della Commissione elettorale suprema che è sembrata avere ceduto alle pressioni dell’Akp, metterebbe in discussione la credibilità del sistema elettorale in Turchia, come ha sottolineato la relatrice del Parlamento europeo Kati Piri.
Solo poco più di un mese fa l’elevata affluenza alle urne (circa l’85% degli aventi diritto) e il risultato elettorale delle grandi città erano stati considerati come una significativa manifestazione della volontà popolare di partecipare al processo politico e di esprimere la propria opinione in un paese in cui la tenuta dello stato di diritto in più occasioni è sembrata vacillare e gli spazi per le voci di dissenso sono diventati sempre più ristretti. Negli ultimi anni, infatti, la trasformazione del sistema politico turco in una repubblica presidenziale, sancita con un controverso referendum costituzionale nel 2017, ha accentuato la concentrazione dei poteri nelle mani del presidente, segnando al contempo una battuta d’arresto nel processo democratico che il paese aveva intrapreso alla metà degli anni Duemila.
È altrettanto vero che sul voto di marzo aveva pesato anche la difficile situazione economica del paese, entrato in recessione alla fine del 2018 per la prima volta in dieci anni, dopo la grave crisi valutaria che lo ha colpito la scorsa estate. Proprio il deterioramento dell’economia, dopo anni di crescita e di sviluppo, è stato uno dei fattori determinanti della perdita di consensi dell’Akp. Come era prevedibile, le ricadute sulla valuta turca dell’annullamento delle elezioni a Istanbul non si sono fatte attendere: il valore della lira è sceso dell’1,6%, portandola a 6,157 nei confronti del dollaro, il più basso dallo scorso ottobre. Allo stesso tempo sono cresciuti i timori degli investitori internazionali sulla tenuta economica e finanziaria del paese, le cui riserve di valuta estera si sono assottigliate, mentre rimane elevato il livello del debito di breve termine. I dubbi dei mercati riguardano anche la volontà della Banca centrale di intraprendere nuove azioni per contrastare l’inflazione che, dopo il picco del 25% dello scorso ottobre, rimane intorno al 20% dopo che l’istituzione monetaria ha deciso l’aumento dei tassi di interesse.
Una nuova fase di polarizzazione politica e di incertezza economica si profila dunque per l’intero paese da qui alla scadenza del 23 giugno. Se “vincere Istanbul a qualsiasi costo” sembrerebbe essere il motto di Erdogan, resta da vedere quale sarà il prezzo che effettivamente il presidente sarà disposto a pagare. Le variabili da tenere in considerazione sono molte e anche questa volta il risultato non sembra affatto scontato.