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TURCHIA

Erdogan in cerca di rivalutazione

Valeria Talbot
04 febbraio 2022

Una nuova crisi valutaria si è abbattuta sulla Turchia a metà dicembre dopo che la Banca centrale ha operato un ulteriore taglio del tasso di interesse, portandolo al 14%. La riduzione di cinque punti percentuali in quattro mesi – il tasso era al 19% lo scorso settembre – ha avuto pesanti ripercussioni su una già fragile lira turca, il cui cambio nei confronti del dollaro è arrivato a 18,4 a 1 nella fase più critica.

 

Svalutazione e inflazione

Nel corso del 2021 la valuta turca ha perso il 44% del suo valore rispetto alla moneta americana. È questo il risultato della politica monetaria “eterodossa” portata avanti dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan, deciso sostenitore della lotta all’inflazione attraverso il taglio del tasso di interesse, in netta controtendenza rispetto alle tradizionali politiche economiche. Nell’ultimo anno si è accresciuta l’influenza di Erdogan sulla Banca centrale turca sempre più allineata alle posizioni del presidente, che ne ha cambiato i vertici a più riprese. L’attuale governatore dell’istituzione monetaria Sahap Kavcioglu, in carica da marzo, si è di fatto mostrato più incline dei suoi predecessori nei confronti della linea di Erdogan volta a promuovere espansione del credito ed esportazioni, attraverso una lira debole. Tuttavia, la forte svalutazione monetaria ha fatto schizzare l’inflazione al 36,08% dal 21,36% di novembre, mentre secondo i dati di un gruppo di economisti indipendenti l’inflazione reale sarebbe molto più alta di quella riportata dai dati ufficiali, attestandosi intorno all’82,81%. Tuttavia, proprio divergenze sul tasso di inflazione sarebbero all’origine della decisione del presidente turco di rimuovere il direttore dell’Istituto di statistica Erdal Dincer all fine di gennaio. Sul fronte opposto, invece, i partiti di opposizione avevano criticato Dincer perché ritenevano che il tasso di inflazione, il più alto dell’era Erdogan, non rispecchiasse i reali, e più elevati, prezzi al consumo nel Paese.  

Per frenare la conversione dei depositi in moneta nazionale in depositi in valuta estera da parte di risparmiatori turchi, il 20 dicembre Erdogan ha annunciato un piano di sostegno al risparmio. Di fatto, questo prevede una compensazione delle perdite subite da coloro che detengono depositi in valuta turca per almeno tre mesi quando il deprezzamento della lira sarà superiore al tasso di interesse offerto dalla banca (in pratica la Banca centrale e le banche pubbliche pagheranno la differenza tra la perdita di valore della lira e il tasso di interesse applicato dalla banca che detiene i depositi). Se nell’immediato la misura ha contribuito a bloccare la caduta libera della valuta turca, i costi di tale operazione per il governo non sembrano essere irrilevanti. Nei primi giorni dall’annuncio del piano le banche turche hanno acquistato lire per oltre 7 miliardi di dollari e interrogativi emergono su quanto a lungo tale piano sia sostenibile. Anzi gli economisti ne evidenziano i rischi, soprattutto quelli legati a una ulteriore spirale inflazionistica, nel caso in cui la Banca centrale fosse costretta a immettere in circolazione nuova moneta. Da inizio dicembre la Banca centrale aveva già utilizzato 20 miliardi di dollari in riserve in valuta estera per sostenere la lira.

Proprio per rimpolpare le proprie riserve ufficiali, a gennaio la Turchia ha firmato un accordo swap del valore di 4,9 miliardi di dollari con gli Emirati Arabi Uniti (EAU). L’accordo, che era stato profilato in occasione della visita del principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed Bin Zayed, ad Ankara a fine novembre, si inserisce nella più ampia cornice della normalizzazione dei rapporti bilaterali tra i due Paesi dopo un decennio di competizione geopolitica sullo scacchiere mediorientale. Indubbiamente, il rilancio della cooperazione economica e commerciale costituisce l’asse portante della rinnovata partnership turco-emiratina, come dimostrato dall’impegno degli EAU di allocare un fondo di 10 miliardi di dollari in investimenti strategici in Turchia. In una fase di fragilità economica, attrarre investimenti esteri - in particolare dalle ricche monarchie del Golfo - risulta prioritario per la Turchia che ha accolto a braccia aperte la nuova diplomazia economica di Abu Dhabi.

 

Erdogan a caccia di consensi

All’attivismo economico con gli EAU è corrisposta sul piano interno l’adozione di misure per sostenere i redditi più bassi – i più colpiti dal rialzo dei prezzi di prima necessità, di servizi, energia e trasporti – quali l’aumento del 50% del salario minimo, portato a 4.250 lire. Tuttavia, anche la classe media, in particolare i lavoratori del settore privato che non godono delle compensazioni per l’inflazione come gli impiegati pubblici, ha subito pesantemente l’aumento del costo della vita che ha portato a una forte contrazione dei consumi, facendo crescere allo stesso tempo il timore di una stagnazione dell’economia in assenza di ripresa della domanda interna.

La difficile congiuntura economica e il deterioramento degli standard di vita sono una delle principali cause del malcontento interno e della crescente disaffezione nei confronti delle politiche del presidente. Nei sondaggi il gradimento nei confronti dell’operato di Erdogan è sceso dal 55,8% di marzo 2020, quando è scoppiata la pandemia di Covid-19, al 38,6% di fine 2021, la percentuale più bassa degli ultimi anni, persino inferiore al sostegno nei primi mesi del 2019, quando l’insoddisfazione per l’andamento dell’economia (dopo la crisi valutaria del 2018) aveva fatto perdere a Erdogan il controllo di Istanbul e Ankara nelle elezioni amministrative.

Se a gennaio si è registrata una leggera ripresa nei consensi (40,7%) per effetto delle misure di sostegno adottate nel mese precedente, questa non sembra dissipare le incertezze sulla tenuta della coalizione di governo (costituita dal Partito giustizia e sviluppo, AKP, e dal Partito del Movimento nazionalista, MHP) e dello stesso presidente nelle elezioni, sia legislative sia presidenziali, del 2023. Secondo un recente sondaggio, Mansur Yavas, sindaco di Ankara ed esponente del Partito repubblicano del popolo (CHP), sarebbe con oltre il 60% delle preferenze la figura politica più apprezzata, seguito dal suo collega di Istanbul Ekrem Imamoglu, anch’egli del CHP, con il 50,7% e dalla leader del Partito buono (Iyi Parti) Meral Aksener con il 38,5%, mentre Erdogan si attesa solo in quarta posizione con il 37, 9%.

 

Un panorama politico in cambiamento

Finché il suo gradimento nei sondaggi non aumenterà, difficilmente Erdogan si spingerà a indire elezioni anticipate. Queste ultime sono invece richieste a gran voce dai leader delle forze di opposizione, soprattutto CHP e Iyi Parti, che mantengono saldo il fronte anti-Erdogan dell’Alleanza Nazionale, di cui fanno parte anche due formazioni più piccole, il Partito della felicità e il Partito democratico. L’opposizione a Erdogan e al suo presidenzialismo costituisce il principale collante di questa eterogenea compagine, unita nell’obiettivo di riportare il Paese al sistema parlamentare in vigore prima della riforma costituzionale del 2018 fortemente voluta dal presidente.

Mentre il ritorno al parlamentarismo raccoglie intorno a sé anche il consenso delle formazioni politiche create da due illustri fuoriusciti dell’AKP – il Partito Futuro dell’ex primo ministro Ahmet Davutoglu e DEVA dell’ex ministro delle Finanze Ali Babacan –, il partito di governo e il suo alleato nazionalista stanno portando avanti la riforma del sistema elettorale volta ad abbassare la soglia di sbarramento elettorale dal 10 al 7% proprio per consentire al MHP, in calo di consensi, di far parte della prossima Assemblea nazionale. Dal panorama politico turco rischia invece di scomparire il Partito democratico dei popoli (HDP) – espressione della minoranza curda – su cui pende la spada di Damocle della chiusura dopo che il procuratore generale della Corte di Cassazione ne ha avanzato richiesta davanti alla Corte costituzionale per presunti legami con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). Se lo scenario della chiusura dovesse verificarsi, resta da vedere dove confluiranno i voti dei curdi, un tempo importante bacino elettorale di Erdogan e del suo partito, prima che l’alleanza di quest’ultimo con i nazionalisti di Devlet Bahceli e la fine del processo per la soluzione della questione curda non intervenissero a mutare le dinamiche politiche interne.

Al di là delle possibili riconfigurazioni del quadro politico turco, non vi è dubbio che l’ambizione di Erdogan è quella di continuare a guidare il Paese e di ottenere un’ennesima vittoria proprio nel centenario della fondazione della Repubblica turca e nel ventesimo anniversario della sua leadership al potere in Turchia. Tuttavia, il compattamento delle principali forze di opposizione da un lato e un diffuso malcontento per la situazione economica dall’altro potrebbero sparigliare le carte della prossima tornata elettorale.

Alla cooperazione, seppur asimmetrica, tra Turchia e Russia fa da contraltare la competizione nei principali teatri di crisi del Mediterraneo allargato. Tanto in Siria quanto in Libia i due paesi stanno cercando di consolidare la propria posizione e influenza, pur stando bene attenti a evitare qualsiasi scontro diretto. Per entrambi, tuttavia, rimane aperta la sfida di pervenire a una soluzione duratura delle crisi in Siria e Libia, che interessi contrapposti e rivalità regionali continuano invece ad alimentare. Non da ultimo, la Turchia sta cercando di ritagliarsi un ruolo di mediatore tra Russia e Ucraina. Dallo scoppio di un conflitto infatti neanche la Turchia, che mantiene importanti relazioni con entrambe, avrebbe da guadagnare.

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