La distensione delle relazioni tra Etiopia ed Eritrea, cui il nuovo primo ministro etiope Abiy Ahmed ha dato impulso nel corso dell’ultimo anno, ha portato con sé forti aspettative di cambiamento. L’accordo di pace con Addis Abeba è stato interpretato da molti osservatori come viatico per una possibile apertura politica del regime di Asmara, le cui limitazioni a diritti e libertà dei cittadini sono state sinora giustificate agitando la minaccia rappresentata dal vicino etiope. Alcuni recenti sviluppi interni, tuttavia, sembrano muovere in direzione opposta.
Cattolici nel mirino
Il 13 giugno il governo eritreo ha ordinato alla Chiesa cattolica di consegnare allo stato tutti i centri sanitari da lei gestiti. Un autentico esproprio che fa leva sulla legge n. 73/1995, che prevede che tutte le strutture sociali (scuole, centri medici) siano gestite direttamente dall’autorità pubblica. Questa disposizione, a lungo rimasta sulla carta, ha iniziato a essere applicata solo negli ultimi anni. Tra il 2017 e il 2018 sono state chiuse otto cliniche cattoliche. Nelle ultime settimane si è poi assistito a un’accelerazione. Funzionari governativi hanno chiesto agli amministratori delle strutture cattoliche di firmare un documento che sancisse il passaggio di proprietà. Gli amministratori dei centri, tuttavia, si sono rifiutati di firmare e hanno chiesto loro di potersi confrontare con le autorità cattoliche. I rappresentanti del governo hanno così chiuso i centri sanitari, sgomberandoli dal personale e impedendo, di fatto, agli operatori di continuare a fornire assistenza medica. Si tratta di un provvedimento che desta forte preoccupazione e sconcerto nelle comunità cattoliche locali e nella popolazione: gran parte di queste strutture, infatti, offre servizi medici e infermieristici a popolazioni che vivono in regioni isolate, e alle quali lo stato non da alcuna assistenza in questo senso. Il timore è che, dopo la requisizione di 29 centri medici, il regime voglia concentrare la propria attenzione sulle 50 scuole cattoliche.
La reazione della Chiesa è stata affidata a una dura lettera inviata dai vescovi cattolici ad Amna Nurhsein, il ministro della Salute eritreo. «Persone inviate dallo Stato - hanno scritto i vescovi - si sono presentate a chiedere la consegna delle strutture sanitarie della Chiesa cattolica; un fatto che non riusciamo a comprendere né nei suoi contenuti, né nei suoi modi». I presuli hanno ricordato gli anni di servizio e di collaborazione della Chiesa cattolica a beneficio della popolazione locale: «In alcuni centri, i soldati sono stati visti intimidire il personale a servizio delle nostre strutture sanitarie, costringere i pazienti a evacuare i locali, e sorvegliare le case dei religiosi. Come è possibile che simili fatti si verifichino in uno Stato di diritto? È così che questo Stato recide di colpo, senza un gesto di riconoscimento, una collaborazione che la Chiesa gli ha offerto per decenni, per il bene del popolo e della nazione?».
Di fronte alla durezza dell’intervento statale, i vescovi non hanno ceduto: «Dichiariamo che non consegneremo di nostra volontà e disponibilità le nostre istituzioni e quanto fa parte della loro dotazione. Diverse nostre strutture sanitarie sono situate all’interno delle nostre case religiose: ora, requisire le prime senza violare la libertà e lo spazio vitale delle seconde, è impossibile. Privare la Chiesa cattolica di queste e simili istituzioni vuol dire intaccare la sua stessa esistenza, ed esporre alla persecuzione i suoi servitori, i religiosi, le religiose, i laici».
Insolitamente, il governo eritreo ha risposto con un comunicato altrettanto duro. «Contrariamente a quanto riportato da alcuni organi di stampa – ha scritto il responsabile delle relazioni esterne dell’ambasciata di Eritrea in Italia -, il nostro Paese permette a tutte le confessioni di esercitare liberamente il proprio credo, nel rispetto della legge n. 73/1995 che articola giuridicamente istituzioni e attività religiose con lo Stato». In merito all’esproprio, la posizione è chiara: «[Per le strutture cattoliche] non si tratta di chiusura, bensì di passaggio di gestione, secondo quanto sancito dalla legge».
Perché, dopo vent’anni dall’approvazione della legge n. 73/1995, vengono espropriate proprio adesso le attività sociali della Chiesa? Secondo alcuni analisti, questa decisione sarebbe una ritorsione nei confronti dei cattolici. Ad aprile, i vescovi, in una lettera pastorale, avevano auspicato «un processo di riconciliazione nazionale che garantisse giustizia sociale» per tutti. I prelati avevano chiesto, sulla scia dell’accordo di pace firmato con l’Etiopia, che il governo introducesse profonde riforme per aiutare la popolazione, allo stremo dopo anni di rigida autarchia. Queste parole non sono state bene accolte dal regime. «Nelle parole dei Vescovi non c’era un intento critico, ma costruttivo - spiega un esponente della Chiesa cattolica che vuole mantenere l’anonimato -. La Chiesa sta lavorando affinché non si producano lacerazioni. Probabilmente il regime ha interpretato questa posizione come un attacco e ha reagito di conseguenza».
Cristiani e non solo
Il governo eritreo, però, non ha colpito solo la Chiesa cattolica. Nel 2017 a finire sotto la morsa del regime di Isayas, sono stati i musulmani. Il 31 ottobre nella capitale Asmara gruppi di giovani di fede islamica sono scesi in piazza per manifestare il loro dissenso di fronte alla disposizione statale che prevedeva la chiusura della scuola islamica privata Diaa Islamic School e l’arresto di tutto il Consiglio di istituto. Il direttore, l’ultanovantenne Hajji Muasa Mohamed Nur, poco prima di essere raggiunto dalla polizia, ha dichiarato a una radio locale di aver rifiutato di obbedire all’ordine emanato nei confronti dell’istituto che prevedeva, tra l’altro, il divieto di insegnare la religione islamica nella scuola, il divieto per le ragazze di indossare il velo e il cambiamento di status della scuola da istituzione privata a pubblica. Di fronte alle manifestazioni, il regime ha reagito duramente e, negli scontri tra i giovani e le forze di sicurezza, sarebbero morte almeno 28 persone, e un centinaio sarebbero rimaste ferite (il numero delle vittime e dei feriti non è mai stato comunicato ufficialmente).
Nel mirino delle forze di sicurezza sono finite negli anni anche le Chiese pentecostali e i Testimoni di Geova. Fuorilegge all’inizio degli anni 2000, i fedeli sono costretti a praticare i propri riti in totale clandestinità per sfuggire all’arresto. Dall’inizio dell’anno sarebbero finiti in prigione un centinaio tra fedeli e pastori pentecostali. Decine i Testimoni di Geova arrestati. I gruppi religiosi “non ufficiali”, secondo il governo eritreo, sono considerati strumenti di sovversione, e per questo non tollerati. Lo stesso vale per tutte le organizzazioni della società civile che non sono allineate alle direttive del regime.
Anche la Chiesa copta di Eritrea, che nel paese ha radici profondissime, ha rapporti molto travagliati con il potere politico. Il 20 gennaio 2007 due sacerdoti accompagnati da agenti della sicurezza del governo sono entrati nella residenza del patriarca Antonios, spesso critico con il regime, e hanno confiscato le sue insegne pontificali personali. In seguito, il 27 maggio 2007, l’alto prelato è stato poi sostituito da abuna Dioskoros, un uomo vicino al governo eritreo, che ne ha appoggiato apertamente la candidatura e l’elezione.
Ciò ha creato una scissione di fatto nella Chiesa ortodossa eritrea: da un lato, coloro che riconoscono in abuna Antonios il legittimo patriarca, dall’altra, i sostenitori di abuna Dioskoros. Oggi, la Chiesa ortodossa non ha alcun patriarca perché, dopo la morte di abuna Dioskoros (2015), non è più stato eletto alcun successore. Abuna Antonios rimane agli arresti domiciliari e si dice sia gravemente malato.
«La situazione eritrea, che si sperava migliorasse dopo la firma della pace con la vicina Etiopia, invece va peggiorando – commenta Abba Mussie Zerai, sacerdote cattolico, da sempre voce critica contro il regime. Assistiamo a una recrudescenza contro i fedeli in preghiera in diverse parti del Paese: è il caso dei pentecostali o dei cinque monaci ortodossi arrestati, tra cui tre ultrasettantenni».
Alcune settimane fa sono stati fermati anche cinque monaci ortodossi del monastero di Bizen, e arrestati con l’accusa di aver acquistato farina al mercato nero. Questa comunità religiosa è tra quelle che si erano ribellate contro l’interferenza del governo negli affari della Chiesa ortodossa.
«Sembra di essere tornati al 1982 – conclude Mussie Zerai - quando il regime del terrore di Menghistu Hailemariam (il dittatore che impose su Etiopia ed Eritrea un regime di stampo sovietico, ndr) confiscava i beni della Chiesa cattolica, compresi conventi, scuole, centri medici, con l’uso della forza bruta. Anche l’attuale regime si è presentato nei conventi di suore dove si trovavano molti di questi centri medici, ha messo i sigilli, buttando fuori il personale, i pazienti e terrorizzando religiosi e religiose che cercavano di difendere il loro servizio offerto al popolo».
Le politiche repressive adottate da Asmara nei confronti delle confessioni religiose costituisce il riflesso di una reazione di chiusura da parte di un regime spaventato dalla portata dei cambiamenti politici che attraversano la regione, percepiti come un pericolo alla sua stessa sopravvivenza.