Dopo anni di silenzio, l’Eritrea è tornata a far parlare di sé lunedì 21 gennaio. Un centinaio di militari guidati dal colonnello Osman Saleh, comandante dei reparti di stanza ad Assab (al Sud vicino al confine con Gibuti), ha preso d’assalto il ministero e diffuso dai microfoni della televisione di Stato un appello che chiedeva riforme e la liberazione dei prigionieri. Saleh, eroe della guerra contro l’Etiopia degli anni 1998-2000, e i suoi uomini, dopo un breve negoziato con le forze lealiste, avrebbero poi deciso di ritirarsi a Serejaka, 25 chilometri dalla capitale. Si è trattato di un tentativo di golpe? O un’azione che voleva dare il via a una sollevazione popolare? O un regolamento di conti tra militari? O, ancora, un’azione guidata dello stesso governo, per giustificare una svolta repressiva ai danni di personaggi scomodi, dentro e fuori l’esercito? Gli interrogativi rimarranno ancora tali per molto. L’Eritrea è infatti un paese dal quale non trapelano notizie. Una sorta di Albania degli anni Ottanta in riva al Mar Rosso. Dal 24 maggio 1993, giorno dell’indipendenza, è governata con pugno di ferro da Isayas Afeworki. Considerato da molti come un nuovo Mandela, l’ex guerrigliero, che ha guidato gli eritrei nella lotta contro il regime del negus rosso Menghistu Hailè Mariam, si è gradualmente trasformato in uno spietato dittatore. Negata la promulgazione della costituzione, incarcerati i suoi principali oppositori, militarizzato il paese, repressa ogni forma di dissenso (azzittendo la stampa, intimidendo i religiosi e vietando partiti di opposizione), Isayas ha trasformato l’Eritrea in una grande prigione. Non è un caso che migliaia di giovani cerchino continuamente di scappare per raggiungere Europa, Canada o Stati Uniti.
In questo contesto è impossibile che all’interno del paese cresca e si sviluppi un’opposizione politica che possa proporsi come alternativa a Isayas. E infatti non è un caso che l’unico elemento certo della rivolta del 21 gennaio è che è nata in ambiente militare. Nonostante questo, nell’ambito della diaspora sono nate formazioni di opposizione. Si tratta di organizzazioni politiche diverse tra loro e spesso ideologicamente contrapposte con un unico obiettivo comune: abbattere il regime di Asmara.
La formazione politica di opposizione più antica è l’Eritrean People’s Democratic Party (Epdp). Il suo primo congresso si è tenuto nell’agosto 2011, ma esso trae origine dalla fusione di tre partiti: Eritrean People’s Party, Eritrean Democratic Party ed Eritrean People’s Movement che, a loro volta, hanno origine nell’Eritrean Liberation Front (fondato nel 1961) e nell’Eritrean People’s Liberation Front (creato nei primi anni Settanta). Queste ultime due sono formazioni che hanno contribuito in modo determinante alla lotta per l’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia, anche se poi sono state emarginate dal People’s Front for Democracy and Justice (il partito di Isayas). L’obiettivo principale, si legge nel programma, è di abbattere il regime di Asmara e instaurare uno stato di diritto e laico nel quale siano rispettate le diverse religioni e le diverse culture.
Nel novembre 2011 è poi nato ad Awasa (Etiopia) l’Eritrean National Council for Democratic Change. Più che un partito, è un’organizzazione “ombrello” che riunisce una trentina di movimenti di tendenze diverse. Ha la propria base tra le comunità eritree all’estero. Gruppi legati all’Encdc sono nati in Australia, Canada, Etiopia, Germania, Italia, Medio Oriente, Olanda, Svezia, Sudafrica, Sudan e Usa. Il comitato esecutivo ha sede ad Addis Abeba, mentre il presidente Zegai Yoannes è residente a Londra. Il programma che li unisce è minimale: l’abbattimento del regime e la creazione di uno stato democratico. Questo movimento è in parte finanziato dal governo etiopico (tradizionale nemico dell’Eritrea) che ha tutto l’interesse a sostenere l’opposizione per destabilizzare il regime di Asmara.
Finanziamenti da Addis Abeba arriverebbero anche al terzo grande movimento di opposizione all’estero, l’Eritrean Democratic Alliance (Eda). Anch’esso è una struttura “ombrello” composta da 13 organizzazioni politiche. A differenza delle altre due però ha una forte base anche nelle minoranze etniche (soprattutto gli afar e i kunama) e religiose (musulmani).
La questione che ormai molti si pongono è però se queste organizzazioni siano o meno in grado di prendere il potere dopo la caduta o la morte di Isayas (che soffre di una grave forma di cirrosi epatica). Secondo alcuni analisti, però, non saranno i partiti della diaspora a prendere il potere, ma una o più personalità influenti dell’attuale regime. Tra i nomi che vengono fatti più spesso c’è quello di Teklai Kifle, comandante delle truppe sul fronte Ovest, uno degli uomini più potenti e più corrotti del paese (accusato, tra l’altro, di traffico di armi ed esseri umani). Altre personalità di spicco sono il generale Teklai Habteselasie, ex capo dell’aviazione, Abraha Kassa, capo dei servizi di intelligence e Yemane Ghebremeskel, direttore dell’ufficio presidenziale, e il ministro della Difesa , Sebhat Efrem.