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Venti separatisti
Etiopia: il voto nel Tigray e le ricadute regionali
Luca Puddu
24 settembre 2020

Il 9 settembre si sono svolte le elezioni per il rinnovo delle istituzioni regionali nel Tigray, nel nord dell’Etiopia. L’appuntamento era atteso con apprensione, in quanto organizzato nonostante il parere contrario dell’esecutivo del primo ministro Abiy Ahmed. L’esito dello scrutinio cristallizza il conflitto strisciante tra il governo federale e l’amministrazione tigrina, ad oggi principale riferimento delle opposizioni dopo la sequela di arresti che ha investito la capitale e il sud del Paese nel corso dell’estate.

 Visto da Mekelle, l’esito delle urne potrebbe offrire l’impressione che nulla sia cambiato in Etiopia negli ultimi ventiquattro mesi. Il voto si è svolto nel rispetto della cadenza quinquennale prevista dalla costituzione e ha confermato il dominio incontrastato del Tigray People’s Liberation Front (TPLF), ininterrottamente al potere nella regione dal 1991. La percentuale plebiscitaria che ne ha certificato il successo – circa il 97% delle preferenze – è in linea con i risultati del 2010 e del 2015, contraddistinti di fatto dal regime a partito unico dell’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (EPRDF). Rispetto al passato, tuttavia, il TPLF si è premurato di modificare la legge elettorale per garantire l’ingresso, simbolico, di altre forze politiche nel consiglio regionale. Tale concessione è stata facilitata dal fatto che l’unico vero concorrente – la sezione tigrina del Prosperity Party (PP) – abbia deciso di boicottare le urne, in linea con le direttive del primo ministro.

Vista da Addis Abeba, la tornata elettorale nel Tigray assume il significato opposto. Le elezioni rovesciano radicalmente i ruoli fin qui rivestiti dal primo ministro Abiy Ahmed, premio Nobel per la Pace, e dalla formazione che aveva controllato il Paese fino al 2018. Negli ultimi due anni, il TPLF è stato il comune obiettivo degli strali delle forze di governo e d’opposizione, apparentemente unite nel proposito di porre fine all’autoritarismo del partito tigrino e promuovere la transizione verso un sistema autenticamente democratico. Oggi, il TPLF può ergersi a difensore della volontà popolare e re-investirsi del diritto a governare il nord in maniera del tutto autonoma da Addis Abeba. La decisione di tornare alle urne, infatti, ha avuto luogo in aperta contrapposizione con quanto stabilito dalla commissione elettorale federale, che in primavera aveva disposto il rinvio del voto per far fronte all’epidemia da COVID-19. Il TPLF si era opposto con veemenza al provvedimento e, insieme agli altri partiti d’opposizione, aveva chiesto la formazione di un esecutivo di unità nazionale per traghettare il Paese ad elezioni, salvo optare per l’organizzazione dello scrutinio nel solo Tigray dinanzi al rifiuto della controparte.  Il ragionamento opposto vale per Abiy Ahmed. Questi era salito al potere con consensi quasi unanimi nel 2018, guadagnandosi la nomea di liberale per il suo impegno al rientro dei gruppi d’opposizione in esilio. Oggi, il primo ministro viene imputato dagli ex alleati di manipolare l’emergenza sanitaria per prorogare in maniera illegittima il suo mandato, ricorrendo ad interpretazioni costituzionali ambigue per il tramite di un parlamento dominato dal PP. La recente stretta securitaria contro figure di spicco dell’universo politico degli Oromo – la comunità numericamente maggioritaria nel paese – come Jawar Mohammed e Bekele Gerba ha inciso ulteriormente sulla sua figura di uomo del cambiamento: Abiy Ahmed è accusato di utilizzare lo strumento militare per soffocare ogni tipo di dissenso, in linea con le pratiche di governo dei predecessori.

Il voto del 9 settembre conferma come l’amministrazione del Tigray sia un’entità di fatto indipendente dall’esecutivo federale. Il TPLF, d’altronde, ha voluto attribuire un chiaro significato politico alla tornata elettorale, giustificandola in nome del diritto all’auto-determinazione delle nazionalità etiopiche di cui all’articolo 39 della costituzione federale. La secessione rimane per ora un’ipotesi accademica, ma è indubbio che l’opzione separatista sia entrata con prepotenza nel dibattito pubblico tigrino. Questa deriva centrifuga è confermata dalla composizione dei partiti presenti alle urne: dei cinque contendenti, il TPLF era paradossalmente il più fedele all’idea di una ferma adesione al progetto statuale etiopico, mentre le altre formazioni oscillavano tra l’affermazione di un nuovo ordine confederale e la piena indipendenza del Tigray. La distanza da Addis Abeba è stata acuita negli ultimi mesi dagli arresti ed episodi di violenza contro cittadini tigrini, così come dalla decisione del primo ministro di sciogliere la coalizione multi-etnica dell’EPRDF in favore di un partito pan-etiopico e fortemente centralizzato come il PP. La svolta nazionalista di Abiy Ahmed ha riattivato la retorica della lotta delle periferie contro il “centro coloniale” Amara – la seconda etnia per dimensioni, ma quella dominante nella storia passata dell’Etiopia – offrendo al TPLF l’opportunità di presentarsi quale unico argine a difesa delle autonomie regionali. La disfida con il primo ministro viene articolata con linguaggi simili a quelli che avevano contraddistinto l’insurrezione armata contro la dittatura militare del DERG (comitato, in amarico), il cui rovesciamento nel 1990 spianò la strada all’introduzione dell’odierno federalismo etnico e alla creazione dell’EPRDF.

Nelle stanze di governo ad Addis Abeba non mancano i fautori dell’intervento armato per porre fine all’eccezionalità tigrina. Abiy Ahmed ha liquidato questa eventualità. La ragione di questa reticenza non è dovuta ad una contrarietà di principio all’uso della forza, già sperimentata con successo negli stati regionali Amara e Somali. Piuttosto, risiede nell’incertezza sull’esito di un eventuale scontro con le forze di sicurezza del Tigray. L’esercito federale è già impegnato su più fronti nel sud del Paese, mentre la presenza di ufficiali tigrini nella catena di comando non offre garanzie sull’unità d’intenti dei militari in caso di guerra aperta. Il TPLF, al contrario, ha a più riprese fatto sfoggio dei nuovi equipaggiamenti in dotazione alle sue unità speciali, nel duplice tentativo di rafforzare il consenso interno e mandare un messaggio implicito ad Addis Abeba. Lo scenario più probabile, al momento, è quello di un riconoscimento de-facto dell’autonomia di Mekelle, nell’attesa di un futuro riassestamento degli equilibri in favore del governo federale. Non si tratterebbe di un’ipotesi del tutto nuova: nel corso degli ultimi cento anni, ogni transizione politica nella capitale ha dato luogo a venti di rivolta nel Tigray, passato dallo status di fulcro dell’impero a quello di periferia sin dalla fondazione di Addis Abeba nel diciannovesimo secolo.

Lo stallo tra Mekelle e Addis Abeba è visto con apprensione in Eritrea, dove siede il principale alleato di Abiy Ahmed. Non a caso, il presidente Isaias Afewerki è stato accusato dal TPLF di aver organizzato manovre ostili lungo il confine per sabotare il processo elettorale. L’esistenza di un’amministrazione tigrina semi-indipendente rappresenta una spina nel fianco per il regime eritreo, alle prese con il crescente malcontento per le mancate riforme politiche dopo la fine delle ostilità con l’Etiopia. La riapertura del confine nel 2018 aveva favorito l’afflusso di numerosi rifugiati eritrei nel Tigray, che Asmara teme di poter diventare una testa di ponte per la destabilizzazione della frontiera settentrionale. L’arresto di un alto ufficiale dell’intelligence eritrea a pochi giorni dall’apertura delle urne nel Tigray conferma lo stato d’allerta per possibili alleanze tra le due sponde del fiume Mareb: il colonnello Teame Goytom aveva stazionato per lungo tempo a Mekelle prima dello scoppio della guerra tra i due Paesi nel 1998, operando di concerto con le autorità tigrine nella repressione dei gruppi d’opposizione eritrei in esilio.

 

Photo credits: Paul Kagame

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AUTORI

Luca Puddu
Università La Sapienza

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