Anche l’ultima linea rossa nel conflitto in Tigray è stata superata. Nella notte tra il 14 e il 15 novembre, alcuni razzi sono stati lanciati in territorio eritreo. Secondo il presidente della regione, Debretsion Gebremichael, l’attacco avrebbe colpito l’aeroporto di Asmara, a poco più di duecento chilometri dalla capitale regionale Mekelle: circostanza smentita dal governo eritreo e da diverse fonti secondo cui i razzi avrebbero mancato l’obiettivo cadendo nelle vicinanze del ministero per l’Informazione. Si tratta di un chiaro segnale di regionalizzazione dello scontro tra il governo di Addis Abeba e il Tigray People's Liberation Front (TPLF). Benché tutti gli indicatori mostrassero come il rischio di uno spillover regionale del conflitto fosse concreto e probabilmente inevitabile, e da più parti si evidenziasse la presenza di militari etiopici in territorio eritreo, al di là del confine con il Tigray, e il supporto (seppur non confermato) delle Eritrean Defence Forces alle operazioni militari nella regione, l’attacco sferrato dal TPLF fuga ogni dubbio residuo. L’Eritrea è di fatto coinvolta nella guerra, legittimata a intervenire contro le forze tigrine. E probabilmente non aspettava che un’occasione simile.
Le relazioni pericolose intercorse tra Asmara e Addis Abeba per vent’anni, dallo scoppio delle ostilità armate nel 1998, in ragione della disputa di confine nell’area di Badme – e di più profonde motivazioni strettamente connesse alle ambizioni strategiche dell’Etiopia sul mar Rosso – fino agli accordi di pace del 2018, si sono in larga parte sviluppate come espressione delle ostilità profonde tra élite: quelle tigrine, rappresentate dalla figura di Meles Zenawi, al potere nell’Etiopia del post-Menghistu, e quelle eritree, a formare la classe dirigente del regime di Isaias Afewerki, tuttora in carica. La distensione dei rapporti tra i due stati è stata ampiamente favorita dall’ascesa di Abiy Ahmed Ali e dalla discontinuità ai vertici delle istituzioni federali.
Nel 2012 la morte di Meles e la contestuale nomina di Hailemariam Desalegn Boshe alla guida del governo, non avevano alterato nella sostanza gli equilibri di potere nel paese. Le dimissioni improvvise del primo ministro nel 2018, a due anni dallo scoppio di un’ondata di manifestazioni di protesta in diverse aree del paese, e la nomina di Abiy, il primo oromo a ricoprire la carica di primo ministro in Etiopia, inauguravano una nuova fase politica ad Addis Abeba. Il rinnovamento delle figure politico-istituzionali e la spinta esercitata dalla nuova leadership di Abiy posero le condizioni ottimali per l’avvio di un processo di graduale normalizzazione delle relazioni etio-eritree. L’intesa del luglio 2018 e gli accordi firmati in Arabia Saudita nel settembre dello stesso anno ne davano testimonianza. E tuttavia, a ben vedere, la pacificazione dei rapporti tra i due stati è stata ampiamente misura dell’iniziativa politica di Abiy e delle buone relazioni personali con il capo di stato eritreo, Isaias Afewerki. Le ostilità tra il regime di Asmara e il TPLF hanno continuato a condizionare gli equilibri regionali: è probabile che la chiusura dei confini eritrei con l’Etiopia, seguita alla provvisoria apertura decisa in seguito alla firma degli accordi di Gedda, sia stata motivata dalla persistenza di fattori strutturali di conflitto latente tra Asmara e le élite al governo in Tigray.
Etiopia ed Eritrea hanno un interesse comune a reprimere le resistenze del TPLF. Le élite tigrine hanno rappresentato il gruppo di potere che con maggiore forza si è opposto al progetto nazionale del primo ministro Abiy. La decisione di sciogliere la coalizione di governo – Ethiopian People's Revolutionary Democratic Front (EPRDF), composta da partiti rappresentativi delle principali componenti etniche in Etiopia – e di istituire un partito unitario trans-etnico a vocazione nazionale, il Prosperity Party, è stata rigettata dalle autorità del TPLF. È stata considerata espressione di un disegno di graduale ri-accentramento del potere nelle mani del governo federale, controllato dai gruppi etnici demograficamente più rilevanti (oromo, amhara), in cui le élite tigrine, rappresentative di un’etnia minoritaria, si sarebbero trovate a subire gli effetti di un processo di marginalizzazione politica. Contestando merito giuridico e metodo politico della decisione di Abiy, il TPLF ha abbandonato la coalizione di governo e rifiutato di aderire al PP. Ne è conseguita una progressiva escalation di tensioni tra Addis Abeba e Mekelle, culminata nella decisione delle autorità del TPLF di organizzare consultazioni locali – vinte con il 98,5% dei voti – nonostante il veto posto dal governo federale, che aveva rinviato sine die le elezioni nazionali per i rischi connessi all’emergenza sanitaria da Covid-19 in corso nel paese. Mentre il governo accusava il TPLF di aver violato la legge e di controllare indebitamente le istituzioni regionali, le autorità tigrine denunciavano a loro volta l’esercizio illegittimo del potere da parte del governo, a fronte di un mandato elettorale ormai scaduto. Nelle scorse settimane, la diserzione di ufficiali del comando settentrionale dell’esercito nazionale etiopico in favore delle forze armate fedeli al TPLF, il sequestro di materiali ed equipaggiamenti militari e, in ultimo, l’attacco presunto a una guarnigione federale in Tigray hanno fatto da innesco per il conflitto: al 4 novembre risale la decisione del governo di lanciare un’operazione militare contro il TPLF.
L’ordine intervento dato dal primo ministro Abiy allo scopo di “disarmare la giunta criminale [del TPLF], ripristinare l’amministrazione legittima nella regione e assicurare alla giustizia i fuggitivi”, accusati di sabotare le riforme del governo e di agire in violazione dei principi dello stato di diritto, ha risposto dunque a una vitale necessità politica per il governo federale etiopico: soffocare le ambizioni di potere del TPLF e arginare ogni possibile istanza secessionista in Tigray. Un azzardo politico che rischia di favorire nuove spinte centrifughe, manifestazioni di solidarietà e convergenza da parte di gruppi di potere a base etnica altrettanto ostili al disegno di un’Etiopia rafforzata al centro, o nuove ragioni di conflittualità etno-comunitaria. Il coinvolgimento delle forze di sicurezza amhara nelle operazioni militari in Tigray potrebbe rappresentare, in tal senso, un allarmante banco di prova per la tenuta delle relazioni inter-comunitarie nel paese.
Il regime di Isaias Afewerki ha, d’altro canto, un interesse altrettanto profondo a vedere ridimensionato il potere politico-militare e l’influenza del TPLF oltre confine. L’istituzione di un governo regionale allineato alle posizioni della capitale e affrancato dal controllo delle élite del TPLF costituirebbe un viatico per la normalizzazione completa ed effettiva delle relazioni politiche ed economico-commerciali tra Asmara e Addis, con implicazioni positive per entrambi gli stati.
La dimensione internazionale del conflitto in Tigray non è circoscritta al coinvolgimento dell’Eritrea negli sviluppi della crisi militare. Il Corno d’Africa definisce un sistema geopolitico profondamente interconnesso. L’instabilità interna in Etiopia si riflette sugli equilibri regionali, e le dinamiche regionali rischiano di alimentare il conflitto al contempo. Le autorità tigrine hanno accusato gli Emirati Arabi Uniti di fornire supporto al governo etiopico, mettendo a disposizione di Addis Abeba la vicina base di droni di Assab, in Eritrea. La notizia, non verificata, mette però in luce un aspetto fondamentale. La rete di relazioni regionali strutturata dall’Etiopia costituisce un asset politico, diplomatico e militare potenzialmente importante a sostegno della strategia di Abiy Ahmed. Arabia Saudita ed Emirati sono solidi alleati dell’Etiopia nella macro-regione che unisce il Corno al Golfo attraverso il mar Rosso: il ruolo di primo piano avuto dalle monarchie del Golfo nei negoziati che nel 2018 condussero alla firma degli accordi di pace con l’Eritrea ha costituito il riflesso di un interesse generale per la stabilità del paese. La proiezione di potenza di Riyad e Abu Dhabi nell’area risponde alla necessità di controbilanciare le ambizioni regionali di attori rivali, cogliendo al contempo opportunità economiche legate alla crescita, allo sviluppo industriale e ai mercati potenziali nel paese. Rientra dunque nell’interesse delle potenze del Golfo limitare i rischi di destabilizzazione dell’Etiopia e assistere gli sforzi del governo federale per garantire la tenuta dello stato e contenere le spinte insurrezionali di entità federate.
D’altronde, proprio la centralità geostrategica dell’Etiopia nel quadro regionale ha consentito al governo di preservare buone relazioni diplomatiche con attori reciprocamente ostili nella macro-regione, dalla Turchia – secondo investitore nel paese – al Qatar, dove il primo ministro Abiy si è recato in visita istituzionale nel marzo del 2019. L’equilibrismo geopolitico di Addis Abeba ha consolidato un quadro geopolitico ampiamente favorevole al rafforzamento dell’egemonia regionale del paese. L’Etiopia d’altronde vanta relazioni costruttive con il vicino Gibuti – che ha espresso completo sostegno alle operazioni militari etiopiche in Tigray – oltre che con la Somalia di Mohamed Abdullahi "Farmajo". I rapporti tra Somalia ed Etiopia, storicamente difficili per ragioni territoriali legate all’irredentismo somalo sull’Ogaden etiopico, sono stati consolidati a partire dal 2018, nonostante i progetti infrastrutturali che vedono coinvolta l’Etiopia nella regione auto-proclamata indipendente del Somaliland, avversati dal governo di Mogadiscio. Addis Abeba, nello specifico, contribuisce alla sicurezza del paese mediante il fondamentale contributo assicurato alla missione dell’Unione Africana (AMISOM) e la presenza di truppe etiopiche non-AMISOM (secondo alcune fonti, più di 15.000) sul suolo somalo. Il conflitto in Tigray potrebbe avere, a questo riguardo, riflessi pericolosi per la stabilità della Somalia, in ragione dei rischi di indebolimento del dispositivo AMISOM che il ritiro di parte dei contingenti etiopici (circa 3.000) e la rimozione dei caschi blu tigrini potrebbe causare.
Questo complesso sistema di relazioni internazionali priva il TPLF di potenziale supporto diplomatico o militare nella regione. Le preoccupazioni per il governo etiopico potrebbero, al contrario, venire dal Sudan, dove decine di migliaia di sfollati tigrini stanno cercando rifugio per sfuggire alle ripercussioni del conflitto in Tigray. Benché Abiy Ahmed abbia giocato un ruolo chiave nella mediazione tra forze politiche post-rivoluzionarie, facilitando il raggiungimento di un accordo tra militari e attori della società civile, le relazioni tra Sudan ed Etiopia restano in parte condizionate da alcuni dossier critici. Una disputa nella regione fertile di al-Fashqa, al confine tra il Sudan e l’Etiopia, ha fatto registrare nel corso del 2020 scontri violenti tra comunità agricole sudanesi e amhara, e registrato il dispiegamento delle forze militari di Khartoum alla frontiera. Il conflitto tra l’Etiopia e il TPLF e i timori di un possibile supporto sudanese alla resistenza delle forze armate tigrine potrebbe fornire al governo di Khartoum un’occasione da sfruttare per ottenere da Addis il riconoscimento dei diritti sulla regione di al-Fashqa, obbligando i contadini amhara ad evacuare i territori occupati illegalmente secondo le autorità sudanesi. Inoltre, il Sudan è coinvolto, con l’Egitto, nei complessi negoziati politici attinenti alla questione della Grande diga del rinascimento (GERD). Solo poche settimane fa, le parole dell’ex presidente USA Donald Trump, che paventava la possibilità di un intervento militare dell’Egitto per tutelare i propri diritti di sfruttamento delle acque del Nilo, hanno messo in luce il rischio di un’azione armata del Cairo nei confronti dell’Etiopia: in uno scenario di conflitto come quello in Tigray, l’Egitto potrebbe avere interesse ad appoggiare le forze militari del TPLF, sfruttando la destabilizzazione del paese per ostacolare i piani di riempimento della diga.
La guerra in Tigray, che sembra potersi protrarre ben più a lungo di quanto prospettato dal governo in ragione delle capacità militari del TPLF – parrebbe contare su circa 250.000 combattenti potenziali, tra commando militari, milizie non regolari e contadini armati, oltre che su arsenali ben forniti ed equipaggiamenti sofisticati – non è (solo) un affare interno allo stato di Etiopia.
La scommessa di Abiy Ahmed porta con sé rischi politici enormi, per la sua leadership, per le prospettive di sviluppo del paese e per la stabilità della regione.