Etiopia: nuove tensioni tra governo e comunità oromo
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Violenze ad Addis Abeba

Etiopia: tornano le tensioni tra governo e comunità oromo

Luca Puddu
06 luglio 2020

Violenti scontri hanno attraversato Addis Abeba nel corso dell’ultima settimana a seguito dell’assassinio di Hachalu Hundessa, celebre cantante Oromo ucciso nella notte del 29 giugno da assalitori non identificati. Il bilancio provvisorio parla di centinaia tra morti e feriti nella sola capitale, con il rischio che i disordini possano estendersi alla vicina regione di Oromia. Le forze di sicurezza intervenute per disperdere i manifestanti hanno arrestato importanti esponenti dell’opposizione come Jawar Mohammed, guru dei media e figura di primo piano dell’Oromo Federalist Congress. Gli episodi di questi giorni sono solo l’ultimo di una serie di ostacoli nel percorso di avvicinamento alle elezioni dell’Etiopia di Abiy Ahmed, la cui conferma alla guida del paese pare sempre più legata alla soppressione di quelle istanze che ne avevano favorito l’ascesa due anni or sono.

Con le sue canzoni in favore delle rivendicazioni Oromo, Hachalu Hundessa era stato per molti versi uno dei simboli delle proteste di piazza del triennio 2015-2018. Il cantante aveva continuato a distinguersi per il suo attivismo anche dopo la caduta dell’ex primo ministro Dessalegn Hailemariam: solo una settimana prima della sua morte, il cantautore aveva rilasciato un’intervista all’Oromia Media Network di Jawar Mohammed in cui denunciava la persistente marginalizzazione degli Oromo nel quadro politico attuale. Gli scontri che hanno fatto seguito al suo assassinio sono una rappresentazione plastica della frattura creatasi tra Abiy Ahmed e la sua ex base sociale di riferimento. Nell’arco degli ultimi sette mesi, il primo ministro ha gradualmente abbandonato le vesti del liberatore delle minoranze oppresse dal potere centrale per indossare quelle dell’argine contro la disintegrazione territoriale dell’Etiopia: da campione degli Oromo, il premio Nobel per la pace si è trasformato nell’avanguardia di un progetto politico che intende ripristinare il concetto di cittadinanza pan-etiopica e superare le divisioni etniche introdotte dalla costituzione federale del 1993. La scelta di far confluire l’Oromo Democratic Party nel più ampio contenitore nazionale del Prosperity Party – così come la rottura con l’uomo simbolo del riscatto istituzionale Oromo, il ministro della Difesa Lemma Megerssa – sono state affiancate da misure meno eclatanti ma nondimeno paradigmatiche del riaggiustamento politico in atto, come la riabilitazione di alcuni ex funzionari della regione di Oromia precedentemente sollevati dall’incarico con accuse di corruzione. La svolta centralizzatrice è valsa ad Abiy Ahmed il consenso dell’elettorato nella capitale e dei circoli più critici del federalismo etnico, i quali avevano già dimostrato la propria consistenza numerica in occasione delle ultime elezioni libere nel 2005. Ciò, però, al prezzo di consegnare un’ampia fetta degli elettori Oromo all’alleanza tra Oromo Liberation Front e Oromo Federalist Congress. 

L’arresto di Jawar Mohammed potrebbe preludere al congelamento di quei propositi di democratizzazione ribaditi dal primo ministro in occasione della cerimonia d’assegnazione del premio Nobel. Che la luna di miele tra Abiy Ahmed e le associazioni per i diritti umani fosse in crisi era già noto, come certificato da un recente rapporto di Amnesty International sugli omicidi sommari perpetrati dalle forze di sicurezza nelle regioni di Amara e Oromia. La decisione di rinviare la data delle elezioni in nome della lotta alla pandemia e, parallelamente, estendere il mandato dell’esecutivo oltre il limite quinquennale stabilito dalla Costituzione aveva inasprito la dialettica con l’opposizione Oromo. Gli episodi di violenza dell’ultima settimana assumono contorni meno sorprendenti se letti alla luce del comunicato con cui, l’11 giugno, l’Oromo Liberation Front e l’Oromo Federalist Congress ammonivano sul rischio di violenze su larga scala a seguito del provvedimento di proroga del mandato governativo, definito “una flagrante violazione della Costituzione e un abuso di potere antitetico allo spirito di un sistema democratico e multipartitico”. La strategia mediatica adottata dal governo federale all’indomani dell’arresto degli esponenti dell’Oromo Federalist Congress suggerisce la volontà di imprimere un’ulteriore svolta securitaria, escludendo de facto i due partiti dalla contesa elettorale. Il primo ministro si è presentato dinanzi alle televisioni in tenuta mimetica per consolidare la sua immagine di uomo forte, mentre la procura generale ha accusato Jawar Mohammed e i suoi sostenitori di voler ripercorrere le orme del presunto colpo di stato del 2019 nella regione dell’Amara.

La scelta del muro contro muro potrebbe essere azzardata. L’esercito federale è da tempo impegnato in un’estenuante azione di contro-guerriglia nell’ovest del paese, dove operano dei gruppi armati separatisi dall’Oromo Liberation Front nel 2018 e ancora oggi attivi. Al contempo, il governo deve tenere a bada le crescenti rivendicazioni delle costituenti etniche nel kilil del Southern Nations, Nationalities and Peoples, dove si moltiplicano le richieste di creazione di nuovi stati regionali sull’onda emotiva del referendum tenuto dai Sidama nel 2019. Questa sovraesposizione indebolisce il potere negoziale di Abiy Ahmed nei confronti di quella che al momento appare come la vera nemesi dell’esecutivo ad Addis Abeba: il Tigray People’s Liberation Front. L’ex partito egemone si era unito alle opposizioni Oromo nel rigettare l’estensione del mandato governativo, annunciando l’intenzione di procedere autonomamente ad elezioni nel Tigray entro il termine del settembre 2020. Se confermata, la decisione aprirebbe la strada ad uno strappo istituzionale senza precedenti e, potenzialmente, alla stessa secessione del Tigray, la cui amministrazione si comporta da tempo come un vero e proprio Stato nello Stato. La fattibilità di un intervento armato federale per sopprimere l’iniziativa appare oggi un’ipotesi remota, alla luce della forza del dispositivo di sicurezza del Tigray People’s Liberation Front. Una rivolta su larga scala in Oromia diminuirebbe ulteriormente le possibilità di successo dell’operazione, con il rischio di estendere la crisi alla vicina Eritrea.

L’aumento della conflittualità interna potrebbe ripercuotersi sulla disputa tra Etiopia ed Egitto in merito alla Grande Diga della Rinascita Etiopica. La contesa ha conosciuto una nuova escalation diplomatica nelle ultime settimane, innescando le dichiarazioni bellicose del vice-capo di stato maggiore etiopico Birhanu Jula. La volontà di Addis Abeba di iniziare le operazioni di riempimento della diga a luglio, a prescindere dal raggiungimento di un’intesa con Il Cairo, riflette in parte la volontà di superare le divisioni interne attraverso il ricorso alla minaccia del nemico esterno. Nell’accusare l’Egitto di voler riproporre gli accordi coloniali sulla spartizione delle acque del Nilo e respingere le pressioni internazionali per un compromesso, Abiy Ahmed attinge alle corde più profonde del nazionalismo etiopico: quelle stesse corde che le forze centrifughe del federalismo etnico cercano di spezzare.

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Africa Center For Strategic Studies

Tags

Etiopia Africa
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AUTORI

Luca Puddu
Università di Roma "La Sapienza"

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