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Daily focus

Etiopia: una via d'uscita

21 Dicembre 2021

Le forze tigrine annunciano il ritiro da due regioni del nord. È la prima vera svolta per un cessate-il-fuoco dopo oltre un anno di conflitto.

 

Le forze del Tigray in guerra contro il governo centrale di Addis Abeba hanno annunciato il ritiro dalle regioni di Amhara e Afar, nel nord dell'Etiopia, in quella che viene annunciata come una svolta verso un possibile cessate il fuoco dopo 13 mesi di conflitto. “Confidiamo che il nostro audace atto di ritiro costituisca un’apertura decisiva per la pace”, ha scritto Debretsion Gebremichael, capo del Fronte di liberazione popolare del Tigray (TPLF), che controlla la maggior parte della regione settentrionale, in una lettera alle Nazioni Unite. Nella missiva si chiede inoltre una no-fly zone sul Tigray, un embargo internazionale sulle armi all'Etiopia e alla vicina Eritrea, e un meccanismo di monitoraggio dell’Onu per verificare che le forze armate dell’esercito etiope si ritirino effettivamente dalla regione settentrionale. Nei mesi scorsi le milizie tigrine erano avanzate fino a diverse centinaia di chilometri da Addis Abeba, facendo temere una possibile offensiva verso la capitale. Poi il primo ministro Abiy Ahmed è riuscito a rovesciare le sorti del conflitto in suo favore nel giro di poche settimane. Complice l’impiego di droni armati forniti da Emirati Arabi Uniti, Turchia e Iran. Oggi, l’offerta avanzata dalle forze tigrine rimette nelle sue mani una decisione cruciale: proseguire il conflitto o imboccare una via d’uscita. 

 

 

Un conflitto, molti rovesci?

Il conflitto, scoppiato nel novembre 2020, vede su fronti opposti il governo federale e il Tplf che ha dominato la scena politica etiope per 30 anni, prima che il primo ministro Abiy salisse al potere nel 2018. Il premier, insignito del Nobel per la pace nel 2019, aveva promesso una vittoria rapida e indolore, ma dopo una serie di conquiste iniziali le forze del Tigray hanno lanciato una controffensiva che le ha portate quasi alle porte della capitale. Un’avanzata a cui ha dato una spinta decisiva l’alleanza formale stretta con l'Esercito di Liberazione Oromo, che persegue l’indipendenza dell’Oromia, la regione più densamente popolata dell’Etiopia. Agli inizi di novembre 2021, a un anno dall’inizio del conflitto, la situazione appariva di una gravità tale da costringere il primo ministro a dichiarare lo stato d’emergenza e a rivolgere un drammatico appello alla nazione. “Morire per l'Etiopia è un dovere per tutti noi” aveva detto Abiy, invitando tutti i cittadini a prendere le armi e a combattere per difendere la capitale e il paese. In meno di un mese però gli equilibri del conflitto hanno rapidamente cominciato a cambiare, volgendo in favore dell’esercito, la cui rapida offensiva ha respinto di centinaia di chilometri le forze del Tigray.

 

Tutto merito dei droni?

“L'Etiopia è orgogliosa dei suoi eroi”, proclamava soddisfatto il premier Abiy dopo che le truppe etiopi entravano a Kombolcha, il 6 dicembre scorso. In realtà più che all’eroismo delle sue truppe, il rovesciamento delle sorti della guerra va attribuito alla flotta di droni da combattimento che il premier etiope ha acquistato da governi alleati nella regione del Golfo Persico e altrove, determinati a mantenerlo al potere. “Negli ultimi quattro mesi – scrive il NewYork Times – gli Emirati Arabi Uniti, la Turchia e l’Iran hanno silenziosamente fornito ad Abiy droni armati di ultima generazione, mentre i governi africani e degli Stati Uniti sollecitavano inutilmente un cessate il fuoco e colloqui di pace”. Che la vittoria di Addis Abeba sia da attribuire al loro utilizzo è facilmente dimostrabile: dall’entrata in scena dei droni militarizzati le forze tigrine sono state costrette a ritirarsi di circa 250 chilometri sulla strada verso Makallé, cancellando mesi di vittorie sul campo. Come in altri conflitti, anche in Etiopia i droni da combattimento si sono rivelati un game-changer negli equilibri e nell’esito dei combattimenti. “Non si tratta solo delle capacità dei droni stessi – osserva Peter W. Singer, esperto di guerra a Washington – è l'effetto moltiplicatore che hanno su quasi tutti gli altri fattori umani e tecnologici presenti sul campo”.

 

Criminali e colpevoli?

La guerra nella seconda nazione più popolosa dell'Africa ha destabilizzato una regione già fragile del continente: le stime dell’Onu parlano di migliaia di morti, decine di migliaia di profughi, 400mila persone alle prese con la carestia nel Tigray e quasi 10 milioni che necessitano assistenza alimentare. La scorsa settimana il Consiglio per i diritti Umani dell’Onu ha approvato a maggioranza la creazione di una commissione internazionale per indagare sulle atrocità e violazioni dei diritti umani su larga scala commesse nel paese. Crimini avvenuti nell’inerzia di attori di primo piano come l’Europa, costretta all’inazione, ancora una volta, a causa della mancanza di unanimità tra gli stati membri. Così, se gli Stati Uniti hanno imposto sull’Etiopia una serie di provvedimenti sulla base del Magnitsky Act sui diritti umani, l’Ue non ha seguito lo stesso esempio, poiché molti paesi hanno ritenuto che le sanzioni non fossero una soluzione adeguata. “La mancata risposta dell’Ue alla guerra civile in Etiopia è stata una delle mie più grandi frustrazioni” di quest’anno, ha ammesso l’Alto Commissario per la politica estera dell’Ue Josep Borrell, ammettendo il fallimento dell’Unione davanti all’assedio della popolazione civile, l’uso della violenza sessuale come arma di guerra, le uccisioni e i campi di concentramento basati sull’appartenenza etnica. “Forse le sanzioni non avrebbero fermato il conflitto – ha ammesso Borrell – ma almeno “avrebbero influenzato il comportamento degli attori”.

 

 

Il commento 

di Giovanni Carbone, Head, ISPI Africa Programme

Lo sguardo esterno sulla crisi etiope si è spostato, negli ultimi mesi, dall’emergenza umanitaria nel Tigray – tutt’altro che superata – agli imprevisti rovesciamenti militari, dapprima a vantaggio dei ribelli, poi con il recupero dei governativi. Dopo oltre tredici mesi di conflitto, la cruda altalena della guerra spinge ora il TPLF a proporre un cessate il fuoco, premessa indispensabile per un eventuale dialogo tra le parti, che appare comunque ancora lontano. Il governo di Addis dovrà far prevalere la prospettiva di aprire ad una risoluzione condivisa del conflitto – necessaria ad avviare poi una ricostruzione comune – su quella di approfittare delle difficoltà militari in cui si trovano i ribelli. Anche perché l’altalena potrebbe nuovamente invertire il suo corso.

 

* * *

A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications) 

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Etiopia Ethiopia Africa diritti umani human rights
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