Unità nella diversità. È il motto adottato dal 2000 per l’Unione europea che oggi però suona come un ossimoro inconciliabile. E lo sarà ancora di più nel 2016 e negli anni a venire perché inesorabilmente sbagliato. Si basa infatti su un concetto statico di diversità: il dato cumulato di secoli di storie diverse – e spesso altamente conflittuali – che avrebbero dovuto trovare nella costruzione europea il momento ultimo di sintesi unitaria. L’Unione europea, quindi, come un contenitore unico e rigido di una diversità accumulatasi nel corso dei secoli. Ma a questo concetto statico si contrappone la fluidità e il dinamismo degli ultimi anni. Sono infatti proprio i periodi di crisi profonda che accentuano e divaricano le diversità rispetto a quelli di crescita e stabilità che tendono invece a cristallizzare i diversi interessi dentro e tra gli Stati membri. Un motto quindi per i momenti buoni che non può che risultare quanto meno inadeguato in quelli cattivi. L’intensità senza precedenti delle crisi recenti ha fatto sì che lungo queste diversità si approfondissero delle crepe che rischiano addirittura di far crollare l’intera costruzione comunitaria, quanto meno come l’abbiamo conosciuta finora.
Che l’unità nella diversità fosse un abile esercizio retorico, o al più un auspicio, l’ha dimostrato per prima la crisi dell’Eurozona. Quando si tratta di questioni economico-monetarie la diversità si traduce in divergenza economica. La crisi ha mostrato quali siano i rischi di un’Eurozona in cui la divergenza economica, espressa in termini di potenziale competitivo degli stati membri, è aumentata. Una divergenza/diversità che la Bce fa fatica a tenere insieme, anche se può contare sul vantaggio di un potere forte e centralizzato. Molto meno fortunata è invece la Commissione europea che semplicemente non riesce a star dietro all’accresciuta diversità nemmeno quando il presidente Juncker cerca di sfuggire alla condanna del controllo dello ‘zero virgola’, promettendo flessibilità sul Patto di stabilità e crescita a fronte di riforme strutturali, investimenti produttivi e persino spese di gestione dei flussi migratori. Il problema è che nell’assecondare le pur legittime richieste di lettura flessibile delle diverse e divergenti economie degli Stati membri, si agevola proprio la diversità/divergenza economica. Si rischia di dare nuova linfa a un meccanismo che gli economisti conoscono bene: il moral hazard di chi sa che non ci sono regole ferree. D’altra parte, nessun paese europeo è stato mai sanzionato per aver sforato il Patto di stabilità e crescita e difficilmente lo saranno nel 2016 Francia e Spagna, che fanno parte del corrective arm del Patto di stabilità ormai da 6 anni. E non succederà nemmeno con la Macroeconomic Imbalance Procedure, ovvero quel meccanismo nato solo 4 anni fa proprio quale timidissimo tentativo di riduzione della divergenza economica. La Commissione ha appena fatto sapere che l’Italia non rispetta diversi criteri (5 su 14: rapporto debito/Pil, eccessiva perdita di quote di export, tasso di disoccupazione, disoccupazione giovanile e disoccupazione di lungo periodo). Ma il nostro paese è in ottima compagnia. Ce ne sono altri 17, inclusa una Germania che non ci pensa proprio a ridurre il suo contributo alla divergenza economica grazie a un saldo record delle partite correnti, giunto ormai al 7,9% del Pil (il limite sarebbe il 6%). In linea teorica già nel 2016 la si potrebbe addirittura sanzionare, ma chi ha veramente il potere di costringere la Germania a esportare di meno? Le esportazioni sono alla base della sua crescita economica; sono alla radice della sua ‘diversità’ rispetto ai paesi periferici dell’Eurozona. Anzi in tempo di crisi questa diversità è addirittura percepita in modo positivo, come un meccanismo di protezione che, nel caso tedesco, diventa anche una fonte di potere sugli altri.
Ciascun paese esige dunque maggiore flessibilità, un’interpretazione meno rigorosa delle regole che tenga conto della loro “diversità”. Nel vano tentativo di portare maggiore razionalità a questa cacofonia di diverse voci nazionali, sono nati raggruppamenti di paesi che sentono di condividere, almeno in parte, visioni comuni. Si tratta della contrapposizione tra Nord e Sud dell’Eurozona. Il risultato non è però esaltante perché aggiunge alle crepe nazionali nuove crepe tra centro e periferia.
E questa tendenza vale anche ben oltre gli ambiti strettamente economici. La crisi dei migranti, la paura verso il “diverso” extracomunitario che si aggiunge ai sempre più “diversi” intracomunitari, ha fatto emergere una nuova spaccatura, quella tra Est-Ovest. Ancora una volta questa spaccatura non semplifica il quadro negoziale all’interno dell’UE, anzi lo complica perché si somma alle divisioni tra i Paesi membri all’interno e tra i blocchi. Basti ricordare l’incredibile contrapposizione tra Italia e Francia sugli oltre mille migranti bloccati a Ventimiglia lo scorso maggio. Oppure l’atteggiamento opposto di Ungheria e Polonia di fronte alle proposte della Commissione – a giugno e a settembre – sul ricollocamento dei migranti. Frattura poi ricomposta, ma nel senso meno favorevole all’Europa, con l’elezione del nuovo governo ultraconservatore a Varsavia.
Alla mappatura delle crepe europee bisogna aggiungere anche quelle all’interno dei paesi. La Catalogna rivendica la sua diversità dalla Spagna e chiede di separarsene. Il 2016 sarà un anno cruciale perché la contrapposizione tra Barcellona e Madrid potrebbe toccare livelli senza precedenti soprattutto se l’Assemblea catalana proseguirà il suo percorso di “disconnessione democratica” dallo stato spagnolo. Queste crepe sub-nazionali possono anche trovare nuova linfa dalle crepe a livelli superiori. È il caso della Scozia, in cui lo Scottish National Party (che ha già fatto il pieno di voti alle ultime elezioni nazionali) ha dichiarato che chiederà un nuovo referendum secessionista se la Gran Bretagna abbandonerà l’Unione europea. Una crepa nata da una crepa di ordine superiore. Anzi dalla crepa per antonomasia, quella che potrebbe sfociare in una frattura definitiva: il Brexit.
Se si attribuisce dunque valenza dinamica al concetto di diversità bisogna riconoscere che il business as usual della costruzione europea rischia di essere sempre meno un’opzione. Molte crepe sono troppo profonde per poter essere nascoste con ritocchi estetici. Si è cercato di farlo finora con una pletora di nuove regole e impegni che, è bene rimarcarlo, hanno comunque avuto il pregio di circoscrivere le spinte centrifughe. In questo senso vanno lette le proposte dei cinque presidenti che, malgrado i loro buoni propositi, non possono tuttavia arrestare i processi in corso. Le crepe stanno rendendo la costruzione europea a rischio crollo. Bisogna intervenire sulle sue fondamenta per (ri)costruire un edificio probabilmente meno ampio, ma decisamente più solido.