“Sostenibile, globale e basata sulle regole”. Così dovrebbe essere la connettività secondo l’Unione Europea (UE), che a settembre 2018 ha adottato la sua strategia per collegare l’Asia e l’Europa. Mentre rimane aperta a possibili forme di coordinamento con la Belt and Road Initiative (BRI) – il piano infrastrutturale cinese annunciato dal Presidente Xi Jinping nel 2013 – la strategia UE lancia velatamente il guanto di sfida a Pechino.
Mentre l’Alto Rappresentante UE per gli Affari Esteri, Federica Mogherini, ha sottolineato che la nuova strategia non è una reazione alla BRI, la proposta UE si manifesta, almeno in parte, come una controffensiva diplomatica all’iniziativa del governo cinese. Una strategia che non esclude la partecipazione di Pechino. Al contrario, mira alla creazione di partenariati bilaterali e la ricerca di sinergie con la BRI tramite, per esempio, la piattaforma UE-Cina per la connettività.
Al tempo stesso, il nuovo documento UE per la connettività sfida Pechino riaffermando i principi di trasparenza, libero scambio, sostenibilità e protezione dei dirittialla base delle democrazie occidentali come premessa per la realizzazione di progetti infrastrutturali.
Il piano UE per la connettività euroasiatica riflette, inoltre, la crescente diffidenza nei confronti della BRI da parte di alcuni stati membri. Lo scorso aprile, gli ambasciatori di tutti i paesi UE, meno l’Ungheria, avevano firmato un report critico del progetto di Pechino, sottolineandone la mancanza di trasparenzae il fatto che l’iniziativa, al momento, promuova esclusivamente gli interessi commerciali delle aziende cinesi.
Di recente, gli ultimi ad aver proposto una “offensiva diplomatica” di Bruxelles e Berlino in risposta all’iniziativa cinese sono stati i tedeschi di BDI, la Federazione delle Industrie della Germania. In un nuovo rapporto sulla Cina pubblicato a gennaio 2019, descrivono BRI come il tentativo di Pechino di espandere la propria influenza geopolitica e modellare i mercati dei Paesi terzi in base ai propri interessi. Mentre chiariscono di non voler isolare la Cina, suggeriscono alle aziende tedesche di limitare la propria dipendenza dal mercato cinese diversificando le proprie fonti di profitto.
Il rapporto BDI riecheggia le parole della classe politica tedesca, che da tempo mette in allerta contro la crescente influenza di Pechino e leconseguenze geopolitiche e geostrategiche dellla BRI. Nel suo intervento alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco a febbraio del 2018, per esempio, l’ex ministro per gli Affari Esteri della Germania, Sigmar Gabriel, ha detto: “L'iniziativa per una nuova Via della Seta non è ciò che alcuni in Germania credono che sia – non è un cenno sentimentale a Marco Polo, ma rappresenta piuttosto un tentativo di stabilire un sistema onnicomprensivo per modellare il mondo secondo gli interessi della Cina. Questa ha cessato da tempo di essere solo una questione di economia. La Cina sta sviluppando un'alternativa sistemica globale al modello occidentale non avendo nella libertà, democrazia e rispetto dei diritti umani individuali i sui principi cardine.”
Tuttavia, nonostante l’adozione della strategia sulla connettività a settembre, l’UE fatica a rispondere alla BRI all’unisono, specialmente alla luce dell’interesse da parte di alcuni governi europei a siglare unmemorandum d’intesa (MoU) con il governo cinese sulla sua iniziativa infrastrutturale. Inoltre, l’UE procede a rilento nella creazione di un budget da dedicare alla connettività.
Queste difficoltà si sono fatte più concrete dopo che il ministro Luigi Di Maio, durante una visita istituzionale a Chengdu lo scorso settembre, si è detto pronto a firmare un MoU sulla BRI. Tale mossa connoterebbe l’Italia come l’unico Paese del G7 e dell’Europa occidentale a siglare un patto ufficiale con Pechino sull’iniziativa. Ancor più che il Framework 16+1 per la cooperazione tra Cina e paesi dell’Est Europa, visto a Bruxelles come il cavallo di troia cinese nel continente, la minaccia rappresentata da un’Italia – uno dei paesi fondatori dell’Unione Europea e una delle economie più avanzate dell’Eurozona – formalmente legata alle priorità e modalità operative di Pechino tramite un MoU su BRI è molto più significativa.
Anche il governo Gentiloni si era impegnato a trarre il meglio dal progetto infrastrutturale cinese. Lo stesso ex Presidente del Consiglio aveva partecipato al Belt and Road Summit del maggio 2017 alla ricerca di opportunità economiche per l’Italia. Sempre nel 2017, il Presidente Sergio Mattarella era stato in visita ufficiale a Pechino, accompagnato da una delegazione di numerose aziende italiane. Ma le stesse imprese delle due economie più forti dell’Eurozona, Francia e Germania, rimangono interessate a perseguire alcune opportunità legate a BRI.
Tuttavia, sposando l’iniziativa in via di principio, anziché limitarsi a selezionare opportunità di business specifiche – il governo Lega-5 Stelle aderirebbe al progetto infrastrutturale con un vincolo formale, aprendosi a vulnerabilità non auspicabili. Le “offerte” di Pechino tendono a presentarsi con un prezzo politico. Questo non giova all’Italia, che, nonostante la retorica dell’attuale governo, estremamente positiva nei confronti della Cina, manca di potere economico e capitale politico per poter fare i conti alla pari con il governo cinese nei rapporti bilaterali.
Questa è la situazione di altre tra le economie maggiormente colpite dalla crisi, che vedono la firma di un MoU sulla BRI con la speranza di ottenere accesso privilegiato a investimenti cinesi. Greciae Ungheria, così come i governi dei 16 paesi est-europei che fanno parte del meccanismo 16+1, hanno già siglato un memorandum su BRI. Il Portogallo sta considerando una potenziale firma.
Più che firmare un MoU nella speranza di ricevere in cambio opportunità economiche senza garanzie concrete, i governi europei dovrebbero sfruttare il desiderio della classe dirigente cinese di ricevere segnali di approvazione ufficiale e di alto livello per BRI per avanzare i propri interessi. Specialmente in vista del secondo Belt and Road Summit, programmato per aprile 2019, dovrebbero usare l’interesse cinese a proprio vantaggio, stabilendo le proprie condizioniper ogni forma di cooperazione su BRI.
L’Italia, interessata a esportare di più in Cina, per esempio, dovrebbe negoziare un miglior accesso al mercato cinese per le aziende italiane o una maggior protezione della proprietà intellettuale e degli asset strategici italiani prima di sottoscrivere un MoU sulla base di vaghe promesse cinesi. Solo così, e lavorando insieme agli altri stati membri all’interno dell’UE, i paesi europei possono garantirsi qualche successo economico duraturo, nonché protezione dalla crescente assertività cinese nei rapporti commerciali e politici bilaterali.