Se nel costume popolare si è soliti affermare che “tra i due litiganti il terzo gode”, in realtà l’Unione Europea e, ancor più nello specifico l’Italia, rischiano invece di patire un aumento di conflittualità fra Usa e Cina, le due maggiori potenze mondiali. Il traumatico passaggio dall’amministrazione Obama a quella Trump ha inasprito una tensione latente che si manifestava tramite il “pivot to Asia”. Questa politica di ri-orientamento delle priorità strategiche di Washington dall’Atlantico al Pacifico elaborato dall’allora segretario di Stato Hillary Clinton nel 2011 prevedeva una componente strategica – il dislocamento del 60% della flotta militare nel Pacifico – e una parte commerciale, rappresentata dal Partenariato Trans-Pacifico (Tpp), un accordo di libero scambio che escludeva la Cina.
Il neo-presidente Donald Trump ha contraddistinto l’intera campagna elettorale con toni molto polemici ed enfatici nei confronti della Cina, soprattutto sul piano commerciale, e ha più volte invocato un nuovo corso maggiormente isolazionista per la politica estera americana. Le relazioni Usa-Cina dovrebbero dunque mantenere una forte tensione in ambito strategico e commerciale, seppur con accenti diversi rispetto a quelli adottati da Obama. I dazi che Trump minaccia di applicare a Pechino sono in direzione opposta rispetto al Tpp, ma hanno lo stesso obiettivo di limitare una ormai inevitabile ascesa cinese sul piano globale. Inoltre, nonostante il presidente cinese Xi Jinping abbia sapientemente approfittato del palcoscenico di Davos per promuovere il suo paese come alfiere del libero mercato, la direzione intrapresa dalle decisioni di politica economica assunte dall’amministrazione cinese puntano ad un rafforzamento della manifattura nazionale. L’esempio principale è rappresentato dal piano Made in China 2025, che oltre a supportare la riconversione verso l’alta qualità del tessuto industriale cinese dichiara l’obiettivo che più del 70% delle industrie altamente tecnologiche operanti in Cina siano nazionali. Per questa e per altre ragioni le istituzioni europee hanno più volte richiesto una reciprocità nelle opportunità di investimento in settori strategici, una possibilità attualmente limitata dalle autorità di Pechino, che, però, allo stesso tavolo richiedono l’apertura del mercato europeo agli investimenti cinesi all’interno della controversia sul riconoscimento alla Cina dello status di economia di mercato, una misura che indebolirebbe gli strumenti anti-dumping di Bruxelles. In mezzo alle iniziative protezionistiche americane e cinesi, l’Europa corre il rischio di diventare il proverbiale “vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro”. Per evitare di pagare un prezzo significativo allo scenario che si sta definendo, l’Europa si trova di fronte a due sole soluzioni: adottare lei stessa politiche protezionistiche – con pericolose implicazioni che si richiamano direttamente gli anni ’30 del Novecento – oppure diventare attiva promotrice di una nuova stagione di globalizzazione.
L’Italia e l’Europa si trovano esposte sensibilmente anche alle evoluzioni del panorama strategico. Le premesse, come anticipato, sono il preannunciato disimpegno americano – soprattutto in Medio Oriente – a cui non farà seguito da parte di Pechino un’azione di riempimento del vuoto lasciato dagli USA, perlomeno nel breve periodo. Infatti, i cinesi, che nel corso dello scorso decennio hanno visto aumentare sensibilmente i propri interessi nel cosiddetto Mediterraneo allargato sia in ambito energetico – già dal 2014 la Cina è diventata il primo paese per importazioni dalla regione – sia commerciale, usufruiscono “comodamente” di una architettura di sicurezza i cui costi di gestione sono sostenuti dagli Stati Uniti. Gli oneri americani nella regione, inoltre, distolgono attenzioni e energie dal quadrante dell’Asia orientale, favorendo l’ascesa regionale cinese. Tuttavia il ribilanciamento degli interessi in Medio Oriente fra Stati Uniti in uscita e cinesi in entrata – si guardi anche agli investimenti legati ai progetti di rilancio della Via della Seta (Belt and Road Initiative – BRI) e, più in generale all’ampliamento delle politiche in favore della maritime economy di Pechino – potrà condurre a una graduale assunzione di responsabilità in ambito di stabilità e sicurezza da parte dei cinesi. La formula con cui avverrà questa evoluzione non è ancora stata definita e la leadership cinese sta sperimentando formule di partecipazione a operazioni militari in difesa dei propri interessi economici quali missioni di peacekeeping sotto mandato delle Nazioni Unite (ad esempio UNMISS in Sud Sudan) o azioni di contro-terrorismo in accordo con gli stati nazionali in crisi di sicurezza (possibilità prevista dalla nuova legge anti-terrorismo entrata in vigore nel 2016). La transizione da una stabilità interamente coperta dagli americani a un ordine internazionale con maggiore coinvolgimento di Pechino potrebbe però richiedere tempi lunghi, con rischi di un vuoto di gestione della stabilità del Mediterraneo che potrebbe impattare sull’Europa e sui suoi confini più meridionali, ovvero l’Italia.
Al quadro appena descritto, si aggiunge che l’aumento dell’assertività cinese, rappresentata dalla grandiosa visione della BRI, si pone come una potenziale revisione dell’ordine internazionale attualmente in essere. Oltre alla componente del riequilibrio dei rapporti di forza fra potenze grandi e medie, è di grande rilievo il futuro contributo cinese alla definizione normativa degli equilibri dei prossimi decenni.
In un’ottica di tutela dei propri interessi l’Europa, e l’Italia in prima linea, deve prendere atto di queste considerazioni e agire di conseguenza. Sul piano commerciale è vitale bilanciare la promozione della globalizzazione con l’ottenimento di pari condizioni di apertura economica. Inoltre, è necessaria un’evoluzione dell’interpretazione della Cina come soggetto internazionale, ovvero non più soltanto agente e partner economico, ma anche protagonista politico. In questo senso risulta fondamentale negoziare un maggior coinvolgimento cinese nel mantenimento della sicurezza in scenari dove dovesse venir meno il contributo statunitense, facendo leva sui crescenti interessi economici cinesi. Infine, sempre in ambito politico, risulta strategico comprendere le dinamiche di proposta di revisione normativa delle relazioni internazionali che verranno presentate dai cinesi al crescere della loro influenza per cercare modalità di partecipazione alla scrittura di tali regole.