Quello che è appena iniziato sarà finalmente l’anno in cui l’Europa imparerà a stare sulle proprie gambe affrontando con forza e maturità le proprie sfide interne e di politica estera? Prima di abbozzare una risposta, è bene partire da un punto fermo: il 2021 è e sarà ancora l’anno della pandemia. In Europa e nel mondo. Il vaccino potrebbe auspicabilmente far superare l’emergenza sanitaria, ma non potrà cancellare la portata devastante del Covid-19 sul piano economico e sociale.
Partiamo quindi dall’economia. In genere per avere un’idea su come andrà l’economia nell’anno successivo ci si affida alle previsioni economiche: + 4,1% di crescita per l’intera Ue secondo la Commissione europea (ma dopo il tonfo del 7,4% nel 2020). Se c’è però una cosa che abbiamo imparato dal 2020 è che nelle condizioni attuali le previsioni hanno un altissimo grado di incertezza. Basti pensare ai continui ritocchi, consistenti e sempre al ribasso, che sono stati apportati nell’anno appena trascorso via via che appariva chiaro che alla prima ondata di infezioni ne sarebbe seguita (almeno) un’altra. Sperando che il vaccino renda sempre meno probabili lockdown totali o parziali, rimarranno comunque le conseguenze economiche della pandemia. A partire dal debito pubblico schizzato in alto ovunque in Europa e nel mondo. A dir poco preoccupante è il dato italiano che si appresta a sfiorare il vertiginoso 160% del Pil, ma anche la Francia è ormai sopra il 115%. E addirittura la Germania ha dovuto sacrificare il mantra del debito al 60% del Pil sull’altare del Covid (oggi si attesta intorno al 71%). Pensare di ristabilire le regole (sospese) del patto di stabilità e crescita non è al momento una opzione. Di per sé tutta questa montagna di debiti in Europa potrebbe anche risultare sostenibile, ma è difficile prevedere se riuscirebbe ad esserlo di fronte a un nuovo ‘cigno nero’: quello di una crisi finanziaria mondiale. Le montagne di debiti sono infatti sempre più alte in tutto il mondo, e a preoccupare sono le vette raggiunte non solo da altre economie avanzate, ma anche dai paesi più poveri e, soprattutto, da quelli emergenti, che oggi pesano molto più che in passato sull’intera economia mondiale. Scongiurare il pericolo di una nuova crisi finanziaria, da qualunque parte questa arrivi, è una priorità per l’Europa e per il mondo intero. Qui infatti lo sforzo non potrà che essere globale. Al riguardo si ricorda sempre, e a ragione, che nella scorsa crisi finanziaria il G20 ha agito con successo. Ma ha agito ex post. Stavolta si tratta invece di agire ex ante. Certo qualcosa è stato fatto nel 2020 con il ‘Common Framework for Debt Treatments beyond the Debt Service Suspension Initiative (DSSI)’. Ma si tratta davvero di poco per i paesi più poveri e di quasi nulla per tutti gli altri. Gli USA di Trump hanno troncato sul nascere qualsiasi iniziativa significativa al riguardo, a partire dai Diritti Speciali di Prelievo del FMI (per timore che anche la Cina ne potesse beneficiare). L’Ue dovrebbe far di tutto per trovare in Biden un alleato su questo tema.
Al suo interno comunque l’Ue qualcosa l’ha già fatto: ha approvato (superando l’incredibile veto italiano) la riforma del MES. Si potrà così resistere di più a shock asimmetrici, che colpiscano proporzionalmente più alcuni paesi europei che altri, ma fino a un certo punto. La capacità di resistere è peraltro legata alla capacità di creare nuova crescita. E da questo punto di vista non si può non riconoscere l’enorme cambio di passo fatto nel 2020 dall’Ue soprattutto con il Recovery Fund. Un cambio di passo che si spera contraddistingua anche il 2021 nella direzione di un veloce esborso degli ingenti fondi e di un loro efficace utilizzo. Un passo fondamentale per ridurre gli effetti politico-sociali della pandemia, che quest’anno si faranno sentire ancora più che nel 2020. Se così non fosse, il recupero della credibilità dell’Ue (dopo anni di immobilismo) sarebbe compromesso. D’altra parte, il 2021 è anche l’anno di importanti elezioni. Gli occhi sono puntati soprattutto sulla Germania del post-Merkel. Alternative für Detuschland sembra al momento arretrare, ma sarebbe pronta a rimbalzare se le condizioni economico-sociali peggiorassero. A preoccupare di più è soprattutto la fragilità dell’alleanza di governo che potrebbe emergere dopo il voto tedesco. Uno scenario che si spera non si realizzi, perché se la Germania è già stata fondamentale per il cambio di passo europeo nel 2020, lo sarà anche in questo e in quelli a venire, quando bisognerà gettare le basi per la ripresa ed impedire che una disoccupazione oltre il 10% in vari paesi Ue si traduca in malcontento e rinnovato euroscetticismo che potrebbero trovare sfogo nelle piazze e nelle urne.
Ma per dimostrare di saper stare sulle proprie gambe, l’Ue dovrebbe anche essere più assertiva sul piano della politica estera e dello standing internazionale. Qui la situazione è ancora più complicata che sul piano economico, su cui quantomeno esistono meccanismi (e competenze Ue) ben più rodati e chiari. A ben vedere, negli ultimi anni si è diffusa nell’Ue una maggiore consapevolezza intorno a questa necessità, e non sono mancate prese di posizione ad alto livello, a partire da quella della presidente von der Leyen su una ‘Europa geopolitica’. Consapevolezza rinvenibile anche in capo ai cittadini. Secondo l’ultimo Eurobarometro, l’87% degli europei è a favore di un’Europa più indipendente da Paesi terzi nell’affrontare le sfide create dalla crisi. Un chiaro invito per l’Ue a reggersi sulle proprie gambe. Ma un invito che si traduce in aspettative molto alte che, in quanto tali, potrebbero essere facilmente frustrate.
Per dare concretezza a queste aspettative, buona parte della responsabilità sta in capo agli Stati membri dell’’Ue: è questo il caso della collaborazione nel campo della sicurezza e della difesa comune che non può limitarsi a Pesco e poco più. Ma è soprattutto il caso delle migrazioni, con un 2021 che potrebbe registrare un nuovo incremento dei flussi nel Mediterraneo. Alcuni passi avanti sono già stati fatti (soprattutto in termini di risorse) ma siamo ancora ben lontani dall’ambizione di creare un vero e proprio confine comune europeo. In molti altri casi le responsabilità si dovranno tradurre in un maggior senso di concretezza nelle relazioni con il resto del mondo. È ciò che servirà, oltre che con la Russia di Putin, con gli USA e con la Cina. Rispetto agli Stati Uniti, il 2021 sarà probabilmente l’anno di una ‘riconciliazione’ solo parziale dopo l’era Trump. Le fratture tra le due sponde dell’Atlantico sono infatti solo in parte figlie degli eccessi di Trump. Su alcuni temi, a partire da quello ambientale e della sanità, si potrà essere più ambiziosi, mentre su altri bisognerà essere pragmatici e capire cosa è possibile ottenere dalla nuova amministrazione americana. È questo proprio il caso del commercio internazionale. L’Ue, facendo sponda con altri alleati internazionali (addirittura anche con la Cina), potrebbe spingere per un ‘re-engagement’ statunitense nel WTO che quanto meno sblocchi l’impasse in cui si trova l’organizzazione. Sui rapporti commerciali bilaterali, appare inutile puntare al recupero del TTIP (come giustamente pensa la stessa von der Leyen). Bisognerà invece avviare un tavolo negoziale sui dazi introdotti da Trump (che difficilmente Biden vorrà/potrà eliminare del tutto) e su altri nodi spinosi come quello degli aiuti di stato, della regolamentare del cyberspazio e della tassazione dei giganti del web. La recente proposta della Commissione Europea di lanciare con gli USA una nuova “agenda transatlantica per il cambiamento globale” va nella giusta direzione. Stessa concretezza dovrebbe rivenirsi nell’apertura di un nuovo tavolo negoziale con l’Iran sul JCPOA e nei rapporti con Mosca. Nel caso della Cina, a contare nel 2021 potrebbero essere gli effetti del recente accordo bilaterale per gli investimenti. Dopo sette anni, Pechino ha fatto concessioni significative sugli investimenti reciproci e sull’accesso al mercato interno che hanno permesso di chiudere positivamente il negoziato a fine dicembre, malgrado gli espliciti avvertimenti dell’entrante amministrazione Biden. Ma si tratterà di capire se l’accordo consentirà davvero a imprese e investitori europei di fare breccia nel mercato interno cinese, o se le concessioni Ue (in particolare l’aver chiuso un occhio sul rispetto dei diritti umani e dei lavoratori) si riveleranno eccessive rispetto all’effettiva applicazione dell’accordo da parte di Pechino.
In definitiva l’Europa ha cominciato questo 2021 dovendo far fronte a nuove e vecchie sfide. Sfide che, peraltro, dovrebbero essere affrontate con un maggior senso di condivisione delle responsabilità internazionali di alcuni suoi paesi, come nel caso della presidenza italiana del G20 e della co-presidenza italo-britannica della COP26 (quindi sì, malgrado Brexit coinvolgendo il Regno Unito che presiederà anche il G7). L’Ue non sarà ancora in grado di camminare completamente sulle proprie gambe nel 2021. Ma quantomeno l’anno scorso le ha allenate più che in passato al punto di poter ora osare qualche passo in più. Nella speranza che un altro cigno nero non si metta di traverso.