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MACROECONOMIA

Eurozona: nuovi policy-mix per la crescita

Franco Bruni
09 Dicembre 2022

Negli ultimi tre lustri l’economia europea ha vissuto tre gravi crisi, in parte condivise con quasi tutto il mondo. C’è stata la grande crisi finanziaria del 2007-9, la crisi dell’eurozona del 2010-12 e la crisi pandemica del 2020 alla quale si è agganciata quella della guerra ucraina. Il tutto col sottofondo disordinato di diffuse debolezze strutturali dell’economia e della società: dalla diseguaglianza dei redditi e delle ricchezze a una minore autostima delle democrazie; dal crescere dei populismi alle enormi difficoltà di affrontare il deterioramento del clima e dell’ambiente nonché le sfide lanciate dalla travolgente evoluzione tecnologica all’occupazione e ai modelli di formazione e di produzione. Secondo il dizionario Collins, la parola dell’anno 2022 è “permacrisis: un lungo periodo di instabilità e insicurezza, dovuto fra l’altro all’instabilità politica, alla guerra ucraina, al cambiamento climatico, all’aumento del costo della vita”.

 

L’espansione monetaria interrotta

Come hanno reagito a tutto ciò le politiche economiche europee? La più reattiva è stata la politica monetaria. La ragione non è solo che è più facile stampare moneta che curare le ferite reali dell’economia migliorando i bilanci pubblici e ristrutturando le produzioni. Infatti è vero che tutte le crisi hanno impattato negativamente sulla “liquidità” dell’economia, cioè sulla possibilità delle famiglie, delle imprese, delle banche, di far prontamente fronte alle spese per cassa con flussi puntuali di incassi e con la vendita a prezzi normali di parte delle attività del proprio patrimonio. È successo quando, nel 2008, sono falliti gli intermediari finanziari e crollati i valori immobiliari; nel 2010-12, quando nei Paesi della periferia dell’eurozona sono entrati in crisi anche i debiti pubblici; nel 2020, quando i lockdowns anti-Covid hanno interrotto bruscamente molti flussi di ricavi inceppando il sistema dei pagamenti; nel 2022, quando la guerra ha ostacolato i commerci e l’inflazione ha tagliato i poteri d’acquisto.

Le autorità monetarie sono dunque intervenute massicciamente in tutto il mondo per ovviare alla rarefazione della liquidità nonché per ridurre il costo dell’indebitamento pubblico e privato. La BCE ha portato i tassi fin sotto lo zero, ve li ha tenuti per diversi anni e ha acquistato con continuità grandi quantità di titoli pubblici, aumentando enormemente le dimensioni del proprio bilancio passate, fra il 2005 e il 2021, dal 12% al 70% del Pil dell’area. Il costo del denaro molto basso ha accresciuto la propensione all’indebitamento e molte imprese, in prima linea quelle di alta tecnologia, ne hanno approfittato per finanziare a debito la loro grande espansione per aumentarne i profitti. L’uso intenso della “leva” debitoria per moltiplicare i rendimenti ha reso convenienti anche investimenti in sé poco redditizi, infragilendo i portafogli di investitori e intermediari.

Durante il 2021 il tasso di inflazione, che per tanti anni era rimasto inferiore all’obiettivo del 2% e aveva giustificato la grande espansione monetaria, ha preso a salire. La politica monetaria ha reagito attribuendo interamente l’accelerazione dei prezzi ai maggiori costi energetici dovuti anche alla guerra e affermando che si trattava di un fenomeno temporaneo destinato a rientrare presto. Ma purtroppo l’inflazione, come in USA e altrove nel mondo, non ha ripiegato ma accelerato e la BCE è stata costretta a seguire la FED, seppur con ritardo ed esitazione, rialzando i tassi di interesse nonostante la previsione di una flessione della crescita che andava configurando una probabile “stagflazione”. Alla fine del 2022 l’inflazione sembra aver raggiunto il massimo ma i tassi continuano a salire e mordere l’indebitamento dei governi e delle imprese che frenano la produzione per i crescenti oneri del loro indebitamento. La previsione è di una sensibile recessione almeno nella prima parte del 2023, su entrambe le rive dell’Atlantico.

 

Debiti pubblici e privati

Anche le politiche di bilancio hanno reagito all’accavallarsi delle crisi. Nell’eurozona ciò è avvenuto con minor intensità e convinzione, per la disciplina del Patto di Stabilità e Crescita e l’insistente frugalità fiscale di alcuni Paesi, fra i quali in prima linea la Germania. Con la crisi Lehman, il disavanzo pubblico medio dell’eurozona è passato dallo 0,6% del Pil nel 2007 al 6,2% nel 2009, mentre negli USA cresceva dal 6,2% al 13,1%. Nella crisi dell’eurozona i disavanzi dei Paesi membri, pur rimanendo elevati, si sono in media ridotti (dal 6,3% del Pil del 2010 al 3,8% del 2012), con effetti pro-ciclici, dopo che la loro ampiezza era stata in parte causa e in parte sintomo delle tensioni finanziarie. Forte è stata l’espansione dei deficit pubblici in occasione delle speciali esigenze della pandemia: nell’eurozona sono passati in media dallo 0,6% del Pil del 2019 al 6% annuo del 2020-1, in USA dal 6,4% al 12,6%. Anche in questo caso l’espansione fiscale americana è stata maggiore, accusata da molti di aver molto contribuito all’inflazione.

Nei 15 anni successivi al 2005, la media (non ponderata) dei rapporti fra debito pubblico e Pil nei 4 maggiori Paesi dell’eurozona è passata dall’80% a più di 130%, negli USA da 61% a 122%. Nello stesso periodo le stime del Fondo Monetario Internazionale (FMI) sui rapporti fra debiti privati e Pil sono cresciute di 30 punti percentuali sia nella media dei quattro Paesi europei che negli Stati Uniti. A questa forte crescita dell’indebitamento hanno contribuito sia le politiche di bilancio espansive che quelle monetarie, rendendo l’ampliamento dei debiti pubblici e privati più facile e meno costoso. È inoltre pensabile che il credito rimasto tanto a lungo a buon mercato abbia deteriorato la qualità media degli investimenti, sia rendendo convenienti quelli poco produttivi che riducendo pericolosamente il rapporto fra i loro rendimenti attesi e la loro rischiosità. È anche probabile che, se la normalizzazione dei tassi cominciata nell’ultimo anno continuerà fino a stabilizzarsi con costi del credito nettamente più alti degli scorsi lustri, l’equilibrio finanziario di numerosi investitori e debitori risulterà deteriorato e in diversi casi insostenibile.

 

Politiche qualitative

D’altra parte è evidente che i tassi dovranno spingersi fino a dove serve per fermare l’inflazione, dopodiché dovranno restare “normali”, cioè significativamente più elevati che negli ultimi 15-20 anni. Ed è inevitabile che le prossime politiche di bilancio tengano conto dell’elevatezza raggiunta dall’indebitamento pubblico e tendano anch’esse a normalizzarsi. Nell’UE si sta ridisegnando il Patto di Stabilità e Crescita la cui sospensione, giustificata dall’emergenza pandemica, è prevista terminare col 2023. La crescita delle economie non potrà derivare dunque dal permanere di politiche macroeconomiche quantitativamente “stimolanti”. Più che spingere la domanda sarà opportuno aiutare la crescita dell’offerta, cioè la produttività e la qualità della crescita, migliorando l’intermediazione finanziaria e la composizione della spesa pubblica. È qui dove le esigenze della crescita incontrano quelle della sostenibilità: dove devono svilupparsi le politiche economiche che affrontano con maggior impegno le sfide che i tempi ci propongono almeno fin dall’inizio del secolo, soprattutto le questioni ambientali, intese in senso lato, comprensive di molti aspetti della qualità della convivenza umana. È significativo che la proposta di riforma del Patto di Stabilità e Crescita pubblicata dalla Commissione leghi strettamente i piani di rientro dei debiti pubblici eccessivi con programmi di riforma e investimento trasformativi adottati da ogni Paese membro e approvati contemporaneamente ai piani di rientro.

La politica monetaria, non solo in Europa, deve rinunciare al protagonismo con cui ha pensato per troppo tempo di poter sostenere la crescita quasi da sola, con la forza dei tassi bassi e della liquidità sovrabbondante. Serve piuttosto una speciale attenzione alla stabilità finanziaria, garantendo i classici interventi di emergenza, quando necessari, per preservare la solvibilità degli intermediari che potrebbe essere compromessa da episodi individuali di illiquidità. D’altra parte non è opportuno sostenere gli intermediari che hanno effettivamente perso la sostenibilità e che possono solo vivere come parassiti riducendo l’efficienza allocativa dei mercati finanziari. Quando si accerta che un intermediario dev’essere “risolto”, la procedura di risoluzione va accelerata e incanalata nei percorsi comunitari predisposti, evitando di lasciarla a quelli nazionali, sempre troppo attenti agli interessi speciali. Purtroppo finora non è stato così, come dimostrano i pochissimi casi trattati finora dalla Single Resolution Authority creata quasi dieci anni fa.

Per perseguire durevolmente la stabilità anche la politica monetaria va accordata con una cura crescente della regolamentazione e della vigilanza sulla continua, rapida evoluzione degli intermediari, dei mercati e degli strumenti finanziari. Si pensi alle crescenti attenzioni necessarie per il rapido avanzare del mondo fintech. Oltre alla prudenza, occorre vigilare sull’efficienza dell’intermediazione, incentivando le gestioni più innovative e attente a inseguire col credito la frontiera della produttività. I tassi bassi hanno anche favorito le cosiddette imprese “zombie”: per aiutare la crescita non “drogata” e sostenibile occorrerà muovere presto il credito in direzione opposta.

 

Politiche di bilancio comunitarie

Se guardiamo all’UE e, in particolare, alle politiche di bilancio, sarà cruciale per la crescita far sì che la grande innovazione del programma NGEU, impostato per far fronte alla pandemia, abbia successo e abbia dei successori. Aver successo significa soprattutto veder effettivamente e per tempo eseguite le spese programmate e poter constatare i benefici degli investimenti finanziati. Questo richiede anche uno svolgimento virtuoso delle interazioni fra i governi nazionali e la Commissione che controlla il programma. Il caso italiano è il più delicato, anche perché è sull’Italia che NGEU ha indirizzato più fondi. La responsabilità del nostro Paese investe anche il futuro della politica di bilancio comunitaria, che abortirebbe se il programma non avesse esito soddisfacente.

I successori di NGEU possono essere di vario tipo. Possono essere ancora programmi speciali e limitati nel tempo o possono rientrare nel normale bilancio comunitario, significativamente allargato e finanziato anche con nuovi tipi di entrata. Possono essere comunitari nel disegno e nel finanziamento o possono vedere l’UE incaricata anche di parte dell’esecuzione diretta delle spese. Possono essere sostitutivi o integrativi di spese pubbliche nazionali. Quest’ultimo aspetto è importante anche perché la possibilità di trasferire alcune spese dai Paesi membri all’UE, evitando duplicazioni inutili, potrebbe facilitare il consenso politico per l’ampliamento del bilancio comune e rendere i programmi tipo-NGEU più coordinati e coerenti con la logica del mercato unico.

Essenziale è che al centro dei programmi di bilancio nell’UE ci sia la necessità di produrre veri beni pubblici e che i beni pubblici europei siano prodotti col forte coordinamento degli organi comunitari. Un bene pubblico le cui economie esterne vanno oltre i confini nazionali dovrebbe indiscutibilmente essere prodotto comunitariamente. Si pensi alla difesa e alle grandi economie che potrebbero realizzarsi accentrando le relative spese oltre alle relative politiche. Solo residui nazionalismi o deprecabili quanto forse inevitabili interessi speciali possono ostacolare una sua graduale comunitarizzazione. Si pensi a quanto programmi educativi effettivamente comunitari potrebbero aiutare la convergenza economica e potenziare il mercato del lavoro europeo, moltiplicando i loro effetti mentre rimbalzano da un Paese membro all’altro. Si pensi alla produttività potenziale di spese comunitarie per politiche di ricerca di base, industriali, energetiche, ambientali, che possano minimizzare il filtro di decisioni di implementazione nazionali che inevitabilmente, quando non ne riducono l’efficacia e l’efficienza, ne possono limitare lo spillover internazionale.

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AUTORI

Franco Bruni
Vice-Presidente ISPI

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