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Fact Checking
Fact Checking: Russia e sanzioni
Eleonora Tafuro Ambrosetti
|
Matteo Villa
|
Francesco Rocchetti
31 gennaio 2019

È da ormai quasi cinque anni, in seguito all’annessione della Crimea da parte della Russia nel marzo 2014, che l’Unione europea ha introdotto una serie di sanzioni nei confronti di Mosca. La Russia ha risposto con controsanzioni, in un crescendo di ostilità che ha alimentato la paura di una nuova “guerra fredda” tra Russia e occidente. Con l’occasione del rinnovo ufficiale delle sanzioni, che scatta oggi e dura fino al 31 luglio 2019, ISPI si propone di fare il punto sugli effetti economici e politici delle sanzioni ed esamina i loro aspetti più controversi.

 

 

Le sanzioni UE contro la Russia hanno centrato il loro obiettivo politico?

 NO, MA... 

Le sanzioni europee hanno come scopo dichiarato l’attuazione completa degli accordi di Minsk da parte della Russia. Ad oggi, tuttavia, gli accordi non vengono rispettati. Secondo la missione OSCE in Ucraina (Special Monitoring Mission, SMM), continuano le violazioni del cessate il fuoco e il numero totale di vittime civili nel 2018 è stato 225 (43 morti e 182 feriti), soprattutto nella regione del Donbas. Russia e Ucraina si accusano vicendevolmente per il mancato rispetto degli accordi; mentre l’Ucraina dà più importanza alle misure di sicurezza (cessate il fuoco incondizionato), la Russia insiste sull’attuazione delle misure politiche dell’accordo (decentralizzazione, elezioni locali e garanzie di amnistia per i combattenti pro-russi). Sembra difficile che la situazione migliori prima delle elezioni presidenziali in Ucraina (marzo 2019), come testimonia l’incidente sullo stretto di Kerch. Se da una parte l’obiettivo del rispetto degli accordi non è stato raggiunto, dall’altra numerosi esperti concorrono nell’ipotizzare che le sanzioni attuali e la minaccia di nuove sanzioni servano da deterrente per la Russia ad adottare una posizione più cauta in Ucraina; soprattutto, le sanzioni UE hanno mandato un segnale importante i) di coesione interna europea nel condannare le azioni russe; e ii) di solidità - su questo tema - dell’alleanza euro-atlantica.

 

Le sanzioni europee hanno avuto un effetto sulle esportazioni russe?

 NO 

 

 

Dal 2014, dopo l’imposizione delle sanzioni europee a marzo, le esportazioni russe verso i paesi UE si sono ridotte notevolmente: del 7% nei primi dodici mesi, e addirittura del 43% nel corso dell’anno successivo. Si tratta di una contrazione molto forte, persino superiore al -33% registrato a seguito della crisi economica globale del 2009. E, mentre nel 2009 alla riduzione aveva fatto seguito un rapido rimbalzo verso i livelli pre-crisi, la contrazione del 2014-2015 è invece proseguita anche negli anni successivi, arrivando fino a oggi.

Tuttavia, osservare solo il dato aggregato non ci permette di capire quale sia stato l’effettivo impatto delle sanzioni europee. Una parte considerevole delle esportazioni russe (il 68% in valore nel 2013, prima del crollo dei prezzi) è infatti composta da petrolio e gas naturale, due materie prime che hanno risentito fortemente del crollo dei prezzi dell’energia cominciato nel giugno 2014, quindi pochi mesi dopo l’entrata in vigore delle sanzioni europee.

Il grafico sopra scompone le esportazioni russe, tra prodotti energetici (linea blu) e non energetici (linea rossa). Dal grafico appare molto evidente come il crollo delle esportazioni tra il 2014 e oggi abbia riguardato quasi esclusivamente i prodotti energetici, e abbia una fortissima correlazione con l’andamento del prezzo del petrolio (linea grigia). Al contrario, le esportazioni di tutti gli altri prodotti hanno fatto sì registrare una contrazione nel 2015 (-20% rispetto al 2013), ma a questa l’anno successivo ha corrisposto addirittura un rimbalzo (+20%, sempre rispetto al 2013). In generale, nel corso dell’ultimo decennio le esportazioni russe dei prodotti non energetici sono state tendenzialmente stabili, indipendentemente dall’esistenza di sanzioni nei confronti della Russia.

 

Le sanzioni UE-USA  hanno avvicinato Mosca a Pechino?

 SI, MA... 

 

Prima delle sanzioni, i Paesi UE costituivano il 45% dell’interscambio totale per la Russia, mentre nel 2017 erano scesi al 38%. L’interscambio con la Cina, in crescita costante da due decenni, ha ricevuto una lieve accelerazione dopo il 2014, ma rimane secondario rispetto all’interscambio con l’UE. I dati mostrano dunque un tentativo da parte di Mosca di cercare alternative rispetto ai mercati Ue, ma anche la continua centralità dei 28 Stati Membri dell’Unione: in sintesi, il blocco commerciale europeo e la Russia restano strettamente interdipendenti e, malgrado i proclami, Mosca non ha molte valide alternative. Per fare un confronto, basti pensare che per il Regno Unito che si appresta alla Brexit l’UE ha un peso nell’interscambio commerciale del 44%: una rilevanza non di molto superiore rispetto a quella che l’UE riveste per Mosca.

Tuttavia, l’interscambio commerciale bilaterale non è l’unico dato da tenere in considerazione. Mosca e Pechino hanno intensificato la propria collaborazione anche sul fronte politico e della sicurezza, spesso motivate proprio dalla comune avversione nei confronti degli Stati Uniti. L’esercizio militare Vostok-2018 (Dongfang-2018 in cinese) lo scorso settembre è stata l’espressione massima della cooperazione strategico-militare tra Russia e Cina negli ultimi anni. A causa della sua portata e importanza, Vostok-2018 è stato paragonato all'esercizio militare Zapad-81 (West-81) condotto da tutti i paesi del Patto di Varsavia nel 1981.
Tornando al fronte commerciale, la Russia spera di riuscire a diversificare parte delle proprie esportazioni energetiche verso Pechino nei prossimi decenni, in particolare attraverso il progetto “Power of Siberia”. Le esportazioni russe dovrebbero cominciare già nel 2019 e andare a regime nel 2024. Tuttavia, anche nel caso il progetto andasse pienamente a regime nei tempi previsti, le esportazioni verso la Cina nel 2024 costituirebbero ancora solo il 15% del totale, mentre il resto continuerebbe a essere esportato verso l’Europa.

 

Le sanzioni hanno ridotto la dipendenza energetica dell’UE dalla Russia?

 NO 

 

 

Tra il 1990 e il 2010, le importazioni di gas naturale dell’Unione europea dalla Russia sono andate progressivamente diminuendo, anche grazie allo sforzo europeo di diversificare i propri fornitori esteri e le quantità importate da ciascuno. Mentre infatti nel 1990 le importazioni di gas da Mosca superavano il 55% del totale importato dagli attuali 28 Stati Membri Ue, nel 2010 avevano raggiunto il minimo storico del 27%.

Paradossalmente, dopo la crisi russo-ucraina del 2014 le importazioni da Mosca hanno acquistato un peso progressivamente maggiore. Se ancora nel 2014 la quota di importazioni da Mosca sul totale importato dai Paesi UE (30%) era ancora vicina al minimo storico, nel 2018 siamo invece tornati ai valori massimi da vent’anni (41%).

Le contro-sanzioni russe hanno danneggiato l’economia UE?

 SI, MA... 

 

 

È innegabile che ogni sanzione porti con sé un danno all’economia, sia di chi la sanzione la impone che di chi la subisce, in proporzione all’importanza del partner nel proprio interscambio commerciale. Tuttavia, malgrado la Russia sia il quarto partner commerciale dei paesi europei, il peso russo per le esportazioni UE equivale solo al 2,6% del totale: una loro contrazione può dunque avere effetti, ma certamente non catastrofici.

In realtà, è difficile stimare esattamente quanto le sanzioni abbiano danneggiato l’economia UE. Va notato che le esportazioni europee verso la Russia sono diminuite da 160 miliardi di euro nel 2013 a 79 miliardi nel 2016, il che significherebbe 80 miliardi di euro in meno nelle tasche di aziende esportatrici europee, a parità di altri fattori economici. Parità che, però, non c’è stata. Infatti, come già visto, nel 2014 e 2015 si è assistito a un drastico calo nel prezzo dei combustibili fossili (in particolare petrolio e gas naturale). Di conseguenza, il potere di acquisto russo si è significativamente ridotto, ed è dunque difficile determinare se la contrazione delle esportazioni europee verso la Russia sia da attribuire alle sanzioni e/o all’andamento dei mercati energetici.

Per tentare di separare l’effetto della “austerity” nei paesi esportatori di petrolio da quello delle sanzioni, si è scelto qui di mettere a confronto l’andamento delle esportazioni UE verso la Russia con quello dell’export UE verso un altro grande Paese esportatore di energia (l’Arabia Saudita) e un importante partner commerciale non esportatore di energia (gli Stati Uniti). Come si può notare dal grafico, le esportazioni europee verso gli Stati Uniti hanno proseguito nella loro dinamica di crescita, e nel 2017 erano di quasi il 10% superiori rispetto ai livelli del 2013. Al contrario, nello stesso periodo le esportazioni verso l’Arabia Saudita hanno fatto registrare una contrazione del 20%. Ma quelle verso la Russia hanno fatto molto peggio, con una riduzione che è arrivata a toccare il 50% nel 2015-2016, prima di fare registrare una lieve ripresa nel 2017.

Possiamo dunque supporre che il maggior impatto sulla Russia sia imputabile proprio alle sanzioni. L’effetto sanzioni avrebbe infatti avuto un contraccolpo sull’export UE pari a circa 50 miliardi di dollari. Come detto, l’apparente grandezza di queste cifre viene tuttavia molto ridimensionata se osservata da un punto di vista relativo: 50 miliardi di dollari equivalgono infatti solo allo 0,9% delle esportazioni totali dell’UE verso il mondo nel 2017.

 

Le sanzioni europee hanno colpito duramente l’export italiano?

 NO, MA... 

 

 

Tra 2013 e 2016, le esportazioni italiane verso la Russia si sono praticamente dimezzate, passando da 14,3 miliardi di dollari nel 2013 a 7,4 miliardi nel 2016, per poi risalire a poco meno di 9 miliardi nel 2017. Questa contrazione, pur elevata in termini assoluti, va tuttavia letta alla luce del fatto che ogni anno l’Italia esporta all’estero beni per un valore di circa 500 miliardi di dollari (vedi grafico, sinistra). In sintesi: le esportazioni verso la Russia si sono dimezzate in poco tempo, stentano a recuperare, ma tale calo è stato relativamente poco significativo rispetto al totale delle esportazioni italiane all’estero, pesando nel 2017 per circa l’1% del totale.

Ciò tuttavia non significa che l’impatto a livello settoriale e locale non sia stato avvertito. Per analizzare i settori più colpiti il grafico riporta il calo di esportazioni in valore assoluto e in valore relativo. Come si può notare, all’estrema destra del grafico compare l’esportazione di macchinari, che ha fatto registrare una contrazione di oltre 2 miliardi di euro. Accanto ai macchinari appaiono altri settori di punta dell’export italiano, come l’abbigliamento, il calzaturiero e il settore dei mobili. Ancora nel 2017, tutti questi settori facevano registrare minori esportazioni per almeno 400 milioni di dollari l’anno, e una contrazione del 35%-55% rispetto al 2013. Infine, malgrado il dibattito pubblico in Italia si sia concentrato sul settore dell’agroalimentare, quest’ultimo non figura tra i 10 settori più colpiti in termini assoluti (con un calo di circa 250 milioni di dollari), anche se ha fatto registrare un calo di circa il 45% in termini percentuali.

 

Le sanzioni possono essere “aggirate”?

 SI 

Esistono dei modi, legali o illegali, per continuare a vendere beni italiani colpiti dalle sanzioni e controsanzioni sul mercato russo. Le sanzioni europee vietano la vendita/fornitura/trasferimento/esportazione di determinati beni e/o tecnologie europei a determinati soggetti fisici e giuridici russi. Tale divieto, esteso espressamente anche ai rapporti indiretti – quindi di fatto anche ai rapporti commerciali operati per il tramite di soggetti terzi/società controllate – sembra lasciare poco spazio alla circolazione legale dei beni colpiti da sanzione, salvo il caso di specifiche autorizzazioni o deroghe.

Con riguardo, invece, alle contro sanzioni russe, tenuto conto del fatto che le stesse colpiscono la merce di produzione straniera, uno spiraglio operativo pare possibile.  

Intervistato da ISPI, Armando Ambrosio, avvocato Responsabile del Desk Russia e CSI dello studio De Berti Jacchia Franchini Forlani, indica due possibili soluzioni legali, entrambe fondate sulla produzione in loco: la costituzione di partnership (joint venture) con partner russi e la creazione di una società di diritto russa. La prima risponde alla strategia russa di attirare produttori italiani in Russia attraverso incentivi fiscali – il cosiddetto “made with Italy”. Igor Karavaev, rappresentante commerciale della Federazione russa in Italia, dichiara che grazie a questa strategia oggi più di 500 aziende italiane lavorano nel mercato russo in diversi campi: dall’agricoltura al settore spaziale. L’ufficio ICE di Mosca e altri esperti interpellati sono più cauti nel valutare l’efficacia della strategia. Pier Paolo Celeste, Direttore dell’Agenzia ICE a Mosca, non dispone del dato esatto sul numero di imprese italiane che hanno avviato una joint venture di produzione nell'ambito del programma “made with Italy”, ma ritiene che gli investimenti italiani di tipo greenfield - cioè gli investimenti diretti esteri in cui una società madre costruisce da zero le proprie attività in un paese straniero - in Russia stentino a decollare, soprattutto a causa della limitata dimensione media delle nostre imprese ed altre difficoltà operative.

La seconda soluzione legale prevede la creazione di una società di diritto russo, tendenzialmente nella forma della società a responsabilità limitata con stabilimenti produttivi in Russia. Come osserva Silvia Risottino, Avvocato specializzato in diritto commerciale e societario internazionale, “tale soggetto giuridico, in quanto russo e nella misura in cui produca in loco e non in Paesi colpiti dalle contro sanzioni, potrà distribuire i prodotti oggetto di contro sanzione dal momento che queste ultime colpiscono prodotti di produzione e provenienza straniera. In ogni caso comunque l’investitore europeo dovrà rispettare i limiti dettati dalla norma comunitaria che vieta gli investimenti in capitale o strumenti finanziari in persone o entità giuridiche stabilite al di fuori dell’Unione e detenute nella misura del 50% o oltre da soggetti (russi) individuati espressamente e oggetto di sanzioni”.

Una pratica illegale sia per l’UE che per la Russia è il re-routing attraverso Paesi non colpiti da sanzioni. In questi Paesi terzi, la certificazione di provenienza e l’etichettatura dei beni colpiti dalle contro sanzioni vengono rimosse per l’immissione nel mercato russo. Ambrosio afferma che questa pratica è comune e che alcuni stati di transito hanno pubblicizzato questa pratica su internet e in convegni diretti a imprese internazionali, soprattutto negli anni immediatamente successivi all’imposizione del regime sanzionatorio. Tuttavia, è difficile avere dei numeri affidabili, trattandosi di una pratica illegale. Le esportazioni alimentari verso la Russia di Serbia, Bielorussia, Macedonia e Turchia (escludendo il periodo in cui la stessa Ankara era vittima di sanzioni russe per l’abbattimento del jet russo nel novembre 2015) sono in effetti  aumentate. Prendendo ad esempio la Serbia, le esportazioni agricole di Belgrado (che ha un accordo di libero scambio con la Russia sin dal 2000) sono state pari a 310 milioni di dollari nel 2016, un aumento del 65% rispetto ai 184,6 milioni del 2014 (prima delle sanzioni). Le principali esportazioni serbe sono frutta e verdura fresche e trasformate, latticini, carne e prodotti a base di carne, gelati, succhi di frutta, vino e altre bevande alcoliche, categorie merceologiche colpite dalle controsanzioni russe. Tuttavia, è difficile dire se tale aumento sia determinato da una scelta commerciale (legale) di destinare sempre più prodotti agroalimentari prodotti in Serbia alla Russia (importandone invece di più dai paesi UE per il consumo interno) o dalla pratica del re-routing (illegale).

 

Il governo italiano può bloccare le sanzioni europee contro la Russia?

 SI 

Il Consiglio europeo stabilisce l’imposizione e il rinnovo di “misure restrittive” (sanzioni) nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune (PESC) all'unanimità. L’Italia può dunque opporsi alla decisione sul prossimo rinnovo semestrale delle sanzioni economiche, che verrà presa prima dello scadere delle sanzioni a luglio 2019. In tale occasione, l’Italia potrebbe porre il proprio veto al rinnovo sia in maniera unilaterale, sia formando una coalizione con altri stati membri contrari alle sanzioni (ad es. Cipro o Malta). Ciò bloccherebbe il rinnovo delle sanzioni economiche; rimarrebbero in piedi, tuttavia, gli altri tipi di sanzioni: le sanzioni diplomatiche, le restrizioni alla cooperazione economica con la Russia e l’embargo economico alla Crimea.

Il fatto che, nonostante la propria opposizione alle sanzioni, l’Italia ne abbia sempre votato il rinnovo evidenzia i rischi politici legati a un’eventuale scelta di imporre il veto. Da un lato, essa comprometterebbe la credibilità della politica estera europea a livello internazionale, oltre a mettere l’UE in una situazione difficile (ad oggi, non esiste un precedente di questo tipo); dall’altro, tale mossa rischierebbe di isolare l’Italia in UE e di compromettere i suoi sforzi diplomatici su altri fronti aperti con Bruxelles (ad esempio, sul tema delle migrazioni). Se la posta in gioco dal punto di vista politico è alta, sul piano economico i possibili benefici del mancato rinnovo per l’Italia sono difficili da quantificare. Come spiega Giumelli (università di Groningen), due sono le principali incognite: i) l’eventualità che la Russia non revochi le sue controsanzioni; ii) l’eventualità che gli USA impongano sanzioni secondarie (con principio di extraterritorialità) contro aziende e/o banche italiane impegnate in attività economiche con attori economici russi colpiti da sanzioni americane. Dunque, un possibile veto italiano appare come una scelta  tecnicamente possibile, ma dagli effetti incerti e difficili da prevedere.

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Freelance Journalist

Tags

Russia
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AUTORI

Eleonora Tafuro Ambrosetti
ISPI Research Fellow, Russia, Caucasus and Central Asia Centre
Matteo Villa
ISPI Research Fellow
Francesco Rocchetti
ISPI Research Assistant

Alla stesura di questo Fact Checking ha collaborato Pietro Galeone, Università Bocconi

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