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Le parole e i fatti

Fact Tracker: 2 anni di Trump

Annalisa Perteghella
|
Matteo Villa
|
Nicola Missaglia
02 novembre 2018

Gli Stati Uniti sono oggi più forti, più sicuri e più ricchi rispetto a quando ho assunto la presidenza, ha dichiarato Donald Trump nel suo discorso all'Assemblea Generale ONU lo scorso settembre. A due anni dall'insediamento di Trump alla presidenza degli Stati Uniti, con questo Fact tracker ISPI traccia un bilancio dei principali risultati raggiunti dalla sua amministrazione in economia, politica interna e politica di sicurezza.

L’America..e il mondo secondo Trump

Dai fatti...alle parole. Trump ha espresso in diversi discorsi la propria visione degli USA e del mondo, tracciando un bilancio della propria presidenza. Dal ruolo dell’America nel mondo allo stato dell’economia USA, dalle politiche energetiche alle relazioni con Cina, Russia, Medio Oriente, i primi due anni di presidenza Trump nelle parole del presidente e nei commenti degli esperti.

 

“America first” e tutti gli altri

"From my first international G7 Summit, to the G20, to the U.N. General Assembly, to APEC, to the World Trade Organization, and today at the World Economic Forum, my administration has not only been present, but has driven our message that we are all stronger when free, sovereign nations cooperate toward shared goals and they cooperate toward shared dreams."

Trump al meeting annuale del World Economic Forum a Davos, gennaio 2018

"Sovranità è un termine chiave del lessico trumpiano e della grammatica politica del nazionalismo bianco statunitense. Una sovranità da difendere e, soprattutto, riaffermare ponendo termine a deficit commerciali cresciuti senza tregua nell’ultimo mezzo secolo, liberando il Paese da una vulnerabilità strategica istituzionalizzata con gli accordi sul nucleare e riacquisendo una piena e incontestabile preponderanza di potenza. Questo messaggio è veicolato attraverso una retorica scopertamente realista: il mondo è una realtà anarchica e competitiva; la sua gerarchia è definibile da parametri facilmente misurabili come gli attivi commerciali, la produzione industriale e gli arsenali nucleari; l’America di Trump è intenta a tutelare l’interesse nazionale statunitense dopo anni in cui esso è stato dolosamente sacrificato sugli altari dei processi d’integrazione globale. Il paradosso – e uno dei grandi limiti – del trumpismo è che a uno sguardo più attento questa iper-realpolitik mostra un evidente deficit di realismo. Da un’analisi grossolana – che occulta e minimizza i vantaggi ottenuti dagli Usa grazie alle mille interdipendenze al cui centro essi si pongono – derivano prescrizioni velleitarie che producono al meglio cambiamenti primariamente cosmetici (come nel caso della revisione dell’accordo Nafta) e al peggio pericolose destabilizzazioni di un ordine globale di suo, oggi, fragile e contestato."

Mario Del Pero, Professore, Sciences Po Parigi

 

Make America Great Again?

"The United States is stronger, safer, and a richer country than it was when I assumed office less than two years ago."

Trump all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, settembre 2018

"Tutte e tre le asserzioni di Trump sulla “sua” America (“piu forte”, “più sicura”, “più ricca”) possono essere messe in questione, specialmente le prime due, per le quali non esiste alcuna possibile misurazione “oggettiva”. “Stronger” può essere messo in dubbio perché con Trump l’America ha allentato fortemente i suoi legami con gli organismi internazionali ed anche con i suoi alleati storici; d’altra parte è anche vero che questo lascia a Washington una maggiore libertà di azione, e che qualche risultato nel riequilibrio dei rapporti commerciali con altri paesi è stato raggiunto. Anche “Safer” è opinabile; può essere in parte considerato vero, nella misura in cui le restrizioni agli ingressi di stranieri può - in via del tutto teorica - aver ridotto il rischio di infiltrazioni terroristiche, ma questo è tutto da verificare; certamente il paese non sembra molto al sicuro sul piano delle interferenze informatiche straniere (Russia, Cina), nel processo democratico, che stanno continuando. “Richer”, infine, va fortemente circostanziato: dall’elezione di Trump gli indici di borsa sono sicuramente saliti fortemente (anche se negli ultimi tempi ci sono stati scricchiolii), e il PIL è cresciuto a ritmi sostenuti, anche in seguito al taglio alle tasse voluto dai repubblicani, che ha favorito soprattutto le grandi aziende; molti commentatori, però, stimano che la riforma fiscale esaurirà in breve tempo i suoi effetti sulla crescita, mentre sul medio-lungo periodo inciderà negativamente sul deficit pubblico; di recente Barack Obama ha rivendicato il merito di aver fatto ripartire l’economia dopo la grande crisi del 2008. Il lungo periodo di rialzo di Wall Street dura da dieci anni, e già prima dell’avvento di Trump il PIL del paese era in crescita, e la disoccupazione in calo."

Oliviero Bergamini, Corrispondente da New York, RAI

 

Economia: mai così forti?

"After years of stagnation, the United States is once again experiencing strong economic growth. The stock market is smashing one record after another, and has added more than $7 trillion in new wealth since my election. Consumer confidence, business confidence, and manufacturing confidence are the highest they have been in many decades."

Trump al meeting annuale del World Economic Forum a Davos, gennaio 2018

"Una dichiarazione come questa, pronunciata all'ultimo World Economic Forum (WEF) di Davos, non è solo scorretta sotto il profilo finanziario. Lo è anche sotto quello economico e politico. Dopo il collasso di Lehman Brothers, avvenuto il 15 settembre 2008 – a un anno e mezzo dall'esplosione della bolla dei mutui subprime sul mercato immobiliare statunitense –, gli USA hanno registrato una pesante contrazione del Prodotto interno lordo nel 2009. Meno 2,8% su base annua, per la precisione. Ma è falso affermare che gli Stati Uniti, dopo l'elezione di Donald Trump alla Casa bianca, sono tornati a crescere. È infatti dal 2010 che il Pil USA continua a salire su base tendenziale. Più 2,5% nel 2010, più 1,6% nel 2011, più 2,2% nel 2012, più 1,7% nel 2013, più 2,6% nel 2014, più 2,9% nel 2015. Tutti sotto la presidenza di Barack Obama. Più 1,5% nel 2016 e più 2,3% nel 2017, sotto l'amministrazione Trump. E Wall Street? È vero che sta (stava, visto che il mercato è attualmente in correzione) battendo ogni record storico. Ma come si può pensare che due anni di esecutivo possano essere così determinanti da incidere sui corsi azionari, quando gli stessi sono in fibrillazione da almeno un lustro, sull'onda dei comparti hi-tech, social media e biotech? Dichiarazioni come questa possono avere un significativo effetto positivo sulla base elettorale di chi le pronuncia, ma difficilmente potranno ammaliare gli addetti ai lavori dell'universo economico-finanziario. Ovvero coloro i quali stanno avvertendo Trump in merito alla deriva della sua politica economica, che potrebbe portare a una guerra commerciale a livello globale capace di incidere sull'intera economia statunitense. Non per trimestri, bensì per anni."

Fabrizio Goria, giornalista finanziario, La Stampa

 

Energia: indipendenti sì, ma...

“In America, we believe strongly in energy security for ourselves and for our allies. We have become the largest energy producer anywhere on the face of the Earth. The United States stands ready to export our abundant, affordable supply of oil, clean coal, and natural gas. OPEC and OPEC nations, are, as usual, ripping off the rest of the world, and I don’t like it. Nobody should like it. We defend many of these nations for nothing, and then they take advantage of us by giving us high oil prices. Not good.”

Trump all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, settembre 2018

"Gli Stati Uniti sono oggi i più grandi produttori di petrolio e di gas naturale al mondo. Questo primato non è tuttavia merito del Presidente Trump, bensì dello sviluppo tecnologico che ha reso possibile lo sfruttamento di risorse non-convenzionali di idrocarburi, come lo shale gas, prima non accessibili. Se un merito va dato al governo, esso deve sicuramente riguardare i generosi finanziamenti in ricerca e sviluppo forniti dal governo negli anni ‘80 e ‘90 per lo sviluppo di tali tecnologie. Gli Stati Uniti raccolgono oggi i frutti di quegli investimenti. Per quanto riguarda l’OPEC, la posizione di Trump è assai peculiare. Il prezzo del petrolio non si è, infatti, alzato negli ultimi mesi a causa dell’OPEC, bensì a causa delle sanzioni che lo stesso Trump ha imposto nuovamente all’Iran. Una sua marcia indietro su questo dossier farebbe certamente scendere di molto il prezzo del greggio, a beneficio dell’economia americana e di tutta l’economia globale."

Simone Tagliapietra, Research Fellow, Bruegel e Senior Associate Research Fellow, ISPI

 

Cina e dazi: guerra utile?

"The United States lost over 3 million manufacturing jobs, nearly a quarter of all steel jobs, and 60,000 factories after China joined the WTO. And we have racked up $13 trillion in trade deficits over the last two decades. But those days are over. [...] We will not allow our workers to be victimized, our companies to be cheated, and our wealth to be plundered and transferred. America will never apologize for protecting its citizens. I have great respect and affection for my friend, President Xi, but I have made clear our trade imbalance is just not acceptable. China’s market distortions and the way they deal cannot be tolerated."

Trump all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, settembre 2018

"Trump strumentalizza i dati per tentare di sostenere la sua volontà di chiusura. Rinnega non solo il ruolo primario degli Stati Uniti come attore della globalizzazione economica (che non è stata subita, ma al contrario guidata dalle imprese americane), ma anche i benefici che ne hanno tratto in termini di riduzione dei costi di produzione e accesso alla domanda asiatica. Sull'evoluzione della produzione e dell’occupazione nel settore manifatturiero statunitense, le analisi economiche mostrano che il fattore principale è stato il progresso tecnologico, non il commercio estero. Inoltre, sono molto incerti anche gli stessi benefici in termini di maggiore occupazione nei settori che si vorrebbero proteggere dalla concorrenza cinese attraverso i dazi. Se l’esperienza insegna, le ultime dispute commerciali con la Cina non hanno portato benefici ai lavoratori statunitensi. Dopo i dazi fino al 30% sull’acciaio imposti nel 2002 da George Bush, si sono persi circa 200 mila posti di lavoro nel settore manifatturiero nazionale (dati ripresi da uno studio della Consuming Industries Trade Action Coalition). Nel settore metallurgico, che allora impiegava circa 197 mila lavoratori, la protezione garantita dai dazi ha permesso di conservarne solo tra 3 mila e 10 mila (dati Piie)."

Alessia Amighini, Co-Head, ISPI Asia Centre

 

Medio oriente: amici affidabili?

“In the Middle East, our new approach is also yielding great strides and very historic change. Following my trip to Saudi Arabia last year, the Gulf countries opened a new center to target terrorist financing. They are enforcing new sanctions, working with us to identify and track terrorist networks, and taking more responsibility for fighting terrorism and extremism in their own region. [...] The United States is committed to a future of peace and stability in the region, including peace between the Israelis and the Palestinians.”

Trump all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, settembre 2018

"La politica di Trump verso il Medio Oriente si è caratterizzata per un deciso riallineamento agli alleati tradizionali nella regione – Israele e Arabia Saudita – dopo gli anni del raffreddamento delle relazioni causato in buona parte dalla decisione di Obama di aprire all’Iran. È sicuramente vero che questo approccio sta producendo cambiamenti importanti nella regione; non è altrettanto sicuro che questi cambiamenti stiano andando nella direzione di una maggiore stabilità. Se lo Stato Islamico è stato quasi interamente sconfitto a livello territoriale, permangono le condizioni che ne avevano causato la nascita e la diffusione: emarginazione e polarizzazione sociale, sgretolamento del potere dello Stato. Viceversa, il rafforzamento e la centralizzazione della leadership in paesi come Arabia Saudita e Egitto rischia di creare illusioni di stabilità in Paesi in realtà fragilissimi, che gli Stati Uniti di Trump hanno eretto ancora di più a interlocutori regionali, decidendo di ignorare le implicazioni di questa partnership sul lungo periodo. La decisione di spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme ha poi messo una pietra tombale sul processo di pace tra Israele e Palestina, ancora una volta nell’illusione che si possano dettare condizioni di pace in maniera unilaterale. Il cambiamento, come spesso avviene, sembra destinato a essere in peggio."

Annalisa Perteghella, ISPI Research Fellow, MENA Centre

 

Corea del Nord: successo storico?

“My administration is proud to have led historic efforts, at the United Nations Security Council and all around the world, to unite all civilized nations in our campaign of maximum pressure to de-nuke the Korean Peninsula.”

Trump al meeting annuale del World Economic Forum a Davos, gennaio 2018

"Per quanto riguarda la campagna di “massima pressione” del presidente Trump nei confronti di Pyongyang, dobbiamo dare a Cesare quel che è di Cesare. Io - e molti altri - ho scritto a lungo dell’esistenza di due miti nel campo della ricerca sulla Corea del Nord. Il primo era che le sanzioni alla Corea del Nord fossero arrivate al limite e che il paese era ridotto alla fame; il secondo era che la Repubblica Popolare Cinese non aveva il potere di fare nulla riguardo il suo problematico alleato. L'audace campagna di massima pressione di Trump deve essere giudicata un grande successo, perché ha dimostrato che entrambi questi miti erano palesemente falsi. Le sanzioni hanno appena scalfito Pyongyang, e c'era molto che la Cina potesse fare per aiutare a tenere sotto controllo le ambizioni nucleari nordcoreane. In effetti, sanzionando le banche cinesi e sfruttando l'ambiguità strategica sull'uso della forza per risolvere la situazione, Trump ha rivelato che tutto dipendeva dalla volontà della Cina. Il problema era sempre stato che i precedenti presidenti degli Stati Uniti avevano visto questa dinamica come una sorta di "favore" che Pechino stava facendo a Washington. Criticando pubblicamente la Cina, alimentando il rischio di una guerra alle sue porte e allontanando le banche cinesi dal sistema bancario globale, Trump ha reso la risoluzione della questione un problema cinese. Per essere qualcuno senza piena contezza della situazione, va dato credito a Trump di aver agito in maniera strategica. La delusione, per il presidente, è però arrivata nella fase successiva. Preferendo un "gesto" teatrale a qualcosa di più sostanziale, Trump ha finito per dissipare gran parte dei risultati delle fasi iniziali della campagna di massima pressione. In effetti, Cina e Corea del Nord hanno iniziato a usare il Vertice di Singapore contro di lui per diluire l’intero negoziato in una serie di processi che fanno guadagnare tempo a Pyongyang, e dei quali nessuno si concentra direttamente sulla questione nucleare. Tale è stata la mancanza di una chiara direzione o di un processo, che anche la Corea del Sud sta cominciando ad essere impaziente, con Moon Jae-in che ha provato a sondare il terreno in Europa per un allentamento delle sanzioni. Data la completa mancanza di progressi dall’incontro di Singapore, siamo ora di fronte a un serio pericolo di arretramento."

John Hemmings | Director, Asia Studies Centre, The Henry Jackson Society

 

Russia: disgelo?

“Our relationship [with Russia] has never been worse than it is now. However, that changed as of about four hours ago. Constructive dialogue between the United States and Russia affords the opportunity to open new pathways toward peace and stability in our world. I would rather take a political risk in pursuit of peace than to risk peace in pursuit of politics. As President, I will always put what is best for America and what is best for the American people.”

Trump alla conferenza stampa dopo il meeting con Putin a Helsinki, luglio 2018

"Trump vuole presentarsi al mondo come il dealmaker, colui che è in grado di correggere il corso della politica estera americana viziato da errori dell’amministrazione precedente. L’ha fatto con la Corea del Nord e sta provando a farlo con la Russia. Ma Vladimir Putin non è Kim Jong Un. Le relazioni con la Russia sono un tema assai più sensibile per l’opinione pubblica americana, e la strategia di Trump è stata criticata trasversalmente dai suoi oppositori politici e dai suoi stessi alleati, che lo accusano di essere troppo remissivo nei confronti di Putin. Tant’è che, pochi giorni dopo il summit, Trump ha dichiarato che le sue affermazioni riguardo possibili interferenze della Russia nelle elezioni americane (“il Russiagate è una farsa”) sono state fraintese. L’incontro di Helsinki era stato preceduto da un tweet in cui Trump incolpava gli Usa per il cattivo stato delle relazioni. Il ministero degli Esteri russo ha risposto laconicamente con un altro tweet: “We agree” – siamo d’accordo. Può darsi che molti americani, tuttavia, non lo siano."

Eleonora Tafuro Ambrosetti, ISPI Research Fellow, Russia, Caucasus and Central Asia Centre

 

*Fonti dello slider: FRED, US Census Bureau, Thomson Reuters, CBP, Gallup, Pew Research Center, Washington Post, Guardian. I dati riportati nello slider sono aggiornati al mese di Novembre 2018.

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AUTORI

Annalisa Perteghella
ISPI Research Fellow
Matteo Villa
ISPI Research Fellow
Nicola Missaglia
ISPI Research Fellow

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