Finanza sostenibile: cinquanta sfumature di verde | ISPI
Salta al contenuto principale

Form di ricerca

  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED

  • login
  • EN
  • IT
Home
  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED
  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
    • DataLab
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri su invito
    • Conferenze di scenario
    • Executive Education
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI

  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
    • DataLab
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri su invito
    • Conferenze di scenario
    • Executive Education
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI
DATAGLOBE

Finanza sostenibile: cinquanta sfumature di verde

Lorenzo Borga
19 novembre 2021

La COP26 ha chiarito che il finanziamento della transizione ecologica arriverà in gran parte dai privati, non guidati da intenti solidaristici ma da opportunità di profitto per i propri azionisti. L’annuncio più eclatante è stato quello di Mark Carney, ex governatore della Banca centrale inglese che, a nome di un gruppo di 450 tra intermediari finanziari, assicurazioni e investitori, chiamato Glasgow Financial Alliance for Net Zero, ha promesso di poter spendere 130 mila miliardi di dollari per raggiungere la neutralità climatica entro tre decenni (anche se più d’uno ha messo in dubbio che la cifra sia realistica).

L’interesse privato per la lotta al cambiamento climatico è forte perché, sebbene il clima sia un bene pubblico puro - cioè in termini economici non rivale (tutti possono goderne) e non escludibile (non si può estromettere nessuno dal goderne) -, la via della transizione ambientale è lastricata di beni privati, che possono essere regolati dal mercato e produrre profitti. L’attenzione dei privati agli investimenti sostenibili però richiede un’attenta vigilanza, perché ciò che guida buona parte delle compagnie è la reputazione e l’incentivo a barare e sovrastimare la propria sostenibilità è dunque sostanziale. Servono quindi strumenti precisi per distinguere ciò che è vero green dal greenwashing.

 

L’esempio della finanza sostenibile

Il mercato della finanza sostenibile è sulla rampa di lancio. Le emissioni di green bonds, vale a dire le obbligazioni vincolate a spese dedicate all’ambiente, valevano l’anno scorso 300 miliardi di dollari ed entro due anni potrebbero raggiungere la soglia dei mille. Più in generale, gli strumenti finanziari ESG (Environment, Social and corporate Governance), tra cui rientrano anche le obbligazioni verdi, valgono ormai dieci volte tanto e nel terzo trimestre 2021 hanno quasi toccato quota 4mila miliardi di dollari. Tutti soldi che a parole vengono investiti per iniziative a favore dell’ambiente, per scopi sociali o da realtà che adottano standard inclusivi di corporate governance.

Come verificare che vengano genuinamente investiti per gli scopi dichiarati? A questo pensano, ancora una volta, sia i privati che i regolatori pubblici. I primi perché hanno un incentivo naturale a verificare che il proprio capitale sia speso come desiderato, i secondi perché riuscirci è spesso impossibile, per via dell’asimmetria informativa presente tra gestori e risparmiatori. Ecco perché gli Stati stanno adottando strumenti di regolamentazione e di classificazione degli investimenti, chiamati in gergo tassonomie. Norme che richiedono ai gestori di rispettare standard e di comunicare nel modo corretto quali realtà finanziano i prodotti finanziari.

Anche perché lasciare la gestione della classificazione in mano ai privati può causare un forte mal di testa. Matteo Gallone, analista di Bestinver, ha confrontato in un grafico le classifiche di sostenibilità di Sustainalytics, Refinitiv e Bloomberg, scoprendo sostanziali differenze tra un indice e l’altro.

 

Europa, successo a metà

Mentre negli Stati Uniti la SEC, l’autorità di vigilanza delle borse, ha da poco chiuso una consultazione pubblica, l’Unione Europea è all’avanguardia grazie al regolamento sulla Sustainable Finance Disclosure entrato in vigore il 10 marzo di quest’anno. Secondo la norma europea i fondi di investimento devono auto-dichiararsi all’interno di tre categorie: senza alcun criterio ESG (articolo 6), in linea di massima ESG (articolo 8) oppure esclusivamente ESG (articolo 9). Non senza problemi però: la società Morningstar, che fornisce ricerche e classifiche sugli investimenti, ha individuato alcune incongruenze su fondi che si auto-dichiarano etici confrontandoli con la propria classificazione di sostenibilità. I fondi articolo 9 si posizionano nel 75% dei casi nei primi due livelli (su 5) di Morningstar, meglio della media generale. Per quanto riguarda invece gli ESGarticolo 8, che devono rispettare criteri meno stringenti, quasi la metà si classifica nei tre livelli più bassi, dimostrando la loro minore efficacia. Non pensiate inoltre che investire i risparmi in fondi sostenibili ci escluda dal rischio di finanziare aziende altamente inquinanti. Anche le società energetiche all’avanguardia sugli investimenti in rinnovabili gestiscono ancora fonti fossili: ecco spiegato perché il 27% dei fondi ESG più stringenti ha comunque un’esposizione maggiore all’1% in società che producono ricavi dal carbone. Mentre solo il 65% può escludere categoricamente ogni coinvolgimento in società che producono energia da fonti fossili. Andrea Resti, professore associato di scienze bancarie all’Università Bocconi, ha scritto che più del 20% degli investimenti effettuati da alcuni fondi verdi, anche proposti da grandi gestori come Amundi, Bnp e Credit Suisse, è rappresentato da petrolio e gas.

La transizione energetica è lastricata di inevitabili contraddizioni, auto elettriche ancora ricaricate con elettricità ricavata da fonti fossili o elettrodomestici energeticamente efficienti prodotti però con l’acciaio cinese. La finanza sostenibile non è esente dal problema, e la difficoltà di misurare con precisione le sfumature di verde degli investimenti di certo non aiuta.

Contenuti correlati: 
Global Watch: Speciale Geoeconomia n.80

Ti potrebbero interessare anche:

Affrontare l'inflazione è una sfida strutturale
Francesco Saraceno
SciencesPo
Cina: la scelta di Xi
Indo-Pacifico: grand tour cinese
BCE: Se basta un post
Verso COP27 con l'acceleratore?
Stefano Salomoni
Analista geopolitico
La globalizzazione (non) è morta
Lucia Tajoli
ISPI
,
Davide Tentori
ISPI

Tags

Geoeconomia economia GREEN
Versione stampabile
 
EU GREEN DEAL

AUTORI

Lorenzo Borga
Sky TG24

SEGUICI E RICEVI LE NOSTRE NEWS

Iscriviti alla newsletter Scopri ISPI su Telegram

Chi siamo - Lavora con noi - Analisti - Contatti - Ufficio stampa - Privacy

ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) - Palazzo Clerici (Via Clerici 5 - 20121 Milano) - P.IVA IT02141980157