La crisi siriana è stato l’evento che, più di tutti, ha messo in discussione la dottrina strategica della Turchia nei riguardi della regione mediorientale. Per quasi un decennio, dall’ascesa al potere nel 2002 fino allo scoppio delle rivolte arabe, Ankara aveva costruito una politica estera incentrata sulla cosiddetta dottrina degli “zero problemi con i vicini”, sottendendo la stabilità dell’area e la propria stessa influenza sulla regione, all’instaurazione di buoni rapporti di vicinato con tutti gli attori confinanti. In questo quadro, proprio la Siria di Bashar al-Assad aveva rappresentato il fulcro di tale politica: dopo anni di relazioni tese – che nel 1998 avevano rischiato addirittura di provocare un conflitto armato tra Siria e Turchia – i rapporti erano migliorati, fino al punto da rendere questo rapporto bilaterale paradigmatico dell’impegno turco in Medio Oriente. Lo scoppio delle rivolte e la successiva tramutazione di queste ultime in vero e proprio conflitto civile, hanno messo Ankara in una difficile posizione, da garante della credibilità di Damasco a livello internazionale, a capofila del fronte antagonista ad Assad, dopo aver invano tentato di convincere il presidente siriano a concedere le riforme richieste dalla popolazione. Il perché del cambio di registro è da rintracciare sostanzialmente in due motivazioni. Da un lato, vi è la necessità per la Turchia di conservare, agli occhi della comunità internazionale, il ruolo di attore stabilizzatore e foriero di democrazia nei Paesi arabi. In questo contesto, Erdogan non poteva più permettersi di appoggiare un regime repressivo come quello siriano.
Dall’altro lato, il timore che il conflitto siriano possa avere ripercussioni all’interno della stessa Turchia, fa sì che il governo turco non possa restare immobile spettatore di ciò che accade al di là dei 900 chilometri di confine che divide i due paesi.
L’attentato dello scorso 11 maggio che ha provocato la morte di almeno 50 persone nella cittadina turca di Reyhanli, a una ventina di chilometri dal confine, ha confermato i timori che l’instabilità siriana possa pericolosamente coinvolgere la Turchia. Il ministro degli Esteri turco Davutoglu ha puntato il dito proprio contro il regime di Assad, sostenendo che Damasco stia minacciando la sicurezza turca e di tutta la regione mediorientale. Erdogan, a questo punto, sembra essere sempre più sotto pressione, in quanto la sua politica di sostegno all’opposizione al regime siriano e, al contempo, di non intervento diretto nel conflitto, potrebbe essere messa in discussione da episodi come quello di Reyhanli. La questione per Ankara sembra essere diventata sempre di più quella di trovare un fronte comune per un intervento più deciso, piuttosto che quella di decidere o meno se intervenire. La sicurezza dei propri confini è sempre stata la priorità nazionale per la dottrina strategica turca e, dato lo scenario venutosi a creare, c’è da aspettarsi che il governo turco spinga per un coinvolgimento più attivo nel conflitto siriano. La stessa questione dei rifugiati – ormai più di 300.000 nella sola Turchia – rischia di destabilizzare ulteriormente le aree di confine e, senza un aiuto esterno, potrebbe costituire un’ennesima minaccia. Infine, vi è sempre la questione curda che, nonostante la costituzione di un vero e proprio Kurdistan indipendente sia del tutto inverosimile, preoccupa il governo di Ankara; motivo per cui Erdogan sta spingendo per un dialogo con il PKK, che potrebbe portare i ribelli curdi anti-turchi fuori dal vortice di conflitti incrociati tra Assad e Turchia.
Come intervenire e con chi? È questo il dilemma del governo turco, alla vigilia dell’annunciata Conferenza di Ginevra di giugno. Ankara non ha mai nascosto il suo disappunto per il lassismo occidentale – per non parlare di Russia e Iran, che continuano seppur in modalità diverse a sostenere il regime di Damasco – e si sente più vicina alle posizioni di Arabia Saudita e Qatar, molto più inclini ad accelerare una caduta del regime. Davutoglu ha affermato che gli attori internazionali, sulla questione della Siria, si dividono in tre categorie: coloro che appoggiano Assad, i paesi che hanno una posizione non nettamente definita e, infine, coloro che sono chiaramente contro di lui. Secondo lo stesso ministro degli Esteri turco, soltanto la Turchia e i paesi arabi del Golfo ricadrebbero in quest’ultima categoria. Ciò vorrebbe dire che, nonostante durante l’incontro del 16 maggio scorso il presidente statunitense Obama ed Erdogan si siano trovati con posizioni molto vicine, Ankara non percepisce negli USA la volontà d'intervenire in maniera decisa, come fatto in altri teatri e in altri contesti storici, ma piuttosto Washington sembra quasi delegare alla Turchia il ruolo di potenza risolutrice del conflitto. Se ciò, a livello politico e di relazioni internazionali, dà nuovo slancio all’asse Turchia-USA, che sembrava essersi incrinato dall’intervento statunitense in Iraq nel 2003 in poi, lascia però aperta la questione per la Turchia. Se gli Stati Uniti, nonostante una linea politica condivisa con Ankara, esitano a impegnarsi direttamente nella soluzione del conflitto siriano, quali possibilità ha Ankara di risolvere la questione? Se in molti sono d’accordo sulla necessità della caduta di Assad, a dividere sono le modalità e gli obiettivi per il futuro. Per esempio, Erdogan ha duramente criticato le incursioni aeree effettuate da Israele contro obiettivi siriani, in quanto darebbero forza interna al regime di Damasco.
La Turchia vorrebbe tornare ad avere un vicino affidabile, in una situazione di relativa stabilità, per far sì che anche le relazioni economiche e commerciali possano riprendere. Niente può essere dato per scontato: qualora la Siria dovesse essere percepita come una minaccia sempre più grave per i propri interessi strategici e per la propria sicurezza – per esempio se dovessero verificarsi altri attentati riconducibili a Damasco –, il governo turco non potrebbe più esitare, anche senza l’intervento diretto degli attori occidentali. O, al contrario, trainandone finalmente l’intervento. Aspettando Ginevra, però, sembra essere realisticamente un obiettivo lontano e, per il momento, Ankara dovrà confrontarsi con l’attuale situazione giorno per giorno.