La Conferenza Onu sui cambiamenti climatici Cop25 manca il bersaglio e rinvia al 2020 le questioni più spinose. “Abbiamo perso un’opportunità” dice il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, mentre i maggiori inquinatori frenano ogni accordo vincolante sulle emissioni di gas serra.
Alla fine la montagna partorì un topolino. La Conferenza Onu sui cambiamenti climatici, che si è conclusa ieri a Madrid (Cop25), ha rinviato tutto di un anno, al prossimo vertice di Glasgow, nel novembre 2020. L’incapacità di raggiungere un consenso va ricercata nella spaccatura tra paesi vulnerabili e cosiddetti ‘grandi inquinatori’ che, ancora una volta, hanno bloccato ogni progresso nelle trattative. La Cop più lunga di sempre – era iniziata il 2 dicembre e la sua chiusura è stata prorogata di 42 ore – si è conclusa con un’intesa vaga che esprime “la necessità urgente” di ridurre le emissioni climalteranti. Troppo poco e troppo tardi, per un’esortazione ben lontana dal calendario di impegni precisi che ci si aspettava dai delegati.
Cos’è il ‘Carbon Market’?
Il fallimento più eclatante della Cop25 è quello che riguarda l’articolo 6 degli Accordi di Parigi del 2015, relativo al cosiddetto ‘carbon market’: l’articolo prevede, tra l’altro, che un paese che produce troppa anidride carbonica (ad esempio perché consuma troppo carbone) possa acquistare crediti da un altro paese che invece si mantiene al di sotto dei limiti consentiti (ad esempio un paese povero, la cui economia non necessita di troppa energia). Cop25 avrebbe dovuto stabilire i meccanismi di calcolo dei crediti, ma si è arresa davanti all’impossibilità di raggiungere un’intesa. Pochi progressi anche sul meccanismo di Varsavia, il cosiddetto loss and damage, il sistema di compensazione e finanziamento per i paesi più esposti ai cambiamenti climatici. La Cop di Madrid ha fallito nel convincere i paesi industrializzati a stanziare i 50 miliardi di dollari necessari per ricostruire i territori colpiti da cambiamenti climatici estremi.
Chi sono i nemici del clima?
A ostacolare i progressi nel negoziato, per ragioni diverse, sono paesi come Brasile, Arabia Saudita, Australia, Russia, India, Cina e Sudafrica. Al di là della differenza tra inquinatori “tradizionali” ed “emergenti”, anche gli Stati Uniti finiscono sul banco degli imputati: la decisione del presidente Donald Trump di uscire dagli Accordi di Parigi sarà effettiva solo il 4 novembre 2020, il giorno successivo alle elezioni presidenziali americane. Ma fino ad allora Washington parteciperà regolarmente ai vertici internazionali sui cambiamenti climatici e, dove potrà, difenderà i propri interessi. Durissimo, in proposito, l’intervento del rappresentante di Tuvalu, piccolo stato insulare dell’Oceania: “C’è una nazione che si è schierata contro queste misure pur avendo deciso di uscire dagli Accordi di Parigi” ha detto, in chiaro riferimento agli Stati Uniti. “Negare che ci siano paesi che stanno già soffrendo per l’emergenza climatica può essere considerato un crimine contro l’umanità”, ha continuato il diplomatico dello stato del Pacifico.
Cosa succede ora?
Se un’intesa globale è saltata, qualche compromesso è stato comunque raggiunto: l’Unione europea, insieme ai piccoli stati insulari, è riuscita ad ottenere una dichiarazione di intenti, in cui 84 paesi si impegnano a presentare entro il prossimo anno nuovi piani nazionali vincolanti per tagliare le emissioni. Un primo passo, da cui però restano fuori Stati Uniti, Cina, India e Russia, che insieme rappresentano circa il 55% delle emissioni globali di gas serra. Via libera anche al Gender Action Plan che promuove i diritti e la partecipazione delle donne nell’ambito dell’azione climatica internazionale. Ma, in definitiva, il vuoto lasciato dalla Cop25 resta enorme. Studi scientifici presentati nel corso del vertice di Madrid hanno dimostrato che dal 2015 ad oggi le emissioni di gas serra sono aumentate del 4% e che dovremo tagliarle del 7% all’anno per i prossimi 10 anni se vogliamo scongiurare il punto di non ritorno.
La prossima Cop in calendario è prevista per novembre 2020, a Glasgow, ma la possibilità di un successo sarà determinata in larga misura dal vertice Ue-Cina, nella città tedesca di Lipsia, il prossimo settembre. La speranza è che per quella data l'Unione a 27 abbia formalizzato l’obiettivo di zero emissioni di carbonio entro il 2050 previsto nel Green Deal e che riesca ad ottenere dai cinesi un accordo per migliorare il loro contributo (National Determined Contributions). In quest’ottica, la Cop26 di Glasgow a novembre 2020 sarà cruciale, affinché l’Accordo di Parigi non rimanga lettera morta.
Il Commento
di Matteo Villa, Research Fellow, Europa e Governance Globale di ISPI
“Chi si aspettava un ‘effetto Greta’ alla Cop25 di Madrid è rimasto deluso. Il vertice Onu non è stato all'altezza delle aspettative di una società civile sempre più consapevole dei rischi dei cambiamenti climatici”.
“La speranza di invertire la rotta è affidata ora all’incontro di Lipsia, tra Unione Europea e Cina, a settembre prossimo. In fondo nel 2015, il successo degli Accordi di Parigi, fu anche frutto dell’asse Washington-Pechino, creato da Barack Obama e Xi Jinping: oggi Bruxelles, con il suo ‘Green Deal’, sembra voler raccogliere il testimone abbandonato dagli Stati Uniti di Trump e proiettarsi verso una virtuosa leadership per l’ambiente”.
* * *
A cura della redazione di ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca, ISPI Advisor for Online Publications)